Di noia e di attesa nel sud tunisino

La noia e l’attesa sembrano essere la dimensione dominante delle aree più emarginate della Tunisia. Voci da Redeyef, dove ogni giorno è uguale all’altro


Di Stefano Pontiggia, estratto dal paper Every Day is a Copy-and-Paste: Waithood Among Tunisian Men pubblicato da Allegra Laboratory

Ho provato ancora questa sensazione di non poter resistere a lungo nell’inazione, sprofondando nella sedia di plastica rossa sulla quale stavo seduto già da un’ora. Mi prende un senso di angoscia crescente all’idea di attendere qualcuno o qualcosa sino alla sera, o di aspettare semplicemente il tramonto così da tornare a casa e riempirmi di nuovo la pancia. Talvolta mi sono chiesto, se io avessi vissuto questa vita e fossi giunto ad avere dei figli a cui raccontare il mio passato, che cosa avrei detto loro? A essere fortunato avrei potuto raccontare delle storie sulla mia fuga in Europa, a non esserlo non avrei avuto nulla da dire (appunti di ricerca, Redeyef, 20 novembre 2014).

Sono arrivato in Tunisia per la mia tesi di dottorato nel gennaio 2014 e dopo due mesi sono partito per Redeyef, una piccola città mineraria nella zona sud-occidentale del Governatorato di Gafsa, poco lontano dal confine con l’Algeria. L’economia locale si basa sulle attività di estrazione e trasporto dei fosfati verso le città della costa di Sfax e Gabes.

Nel 2008 la zona fu teatro di una rivolta durata sei mesi. Alcuni esperti ne parlarono come del primo movimento sociale organizzato avutosi in Tunisia dopo la metà degli anni Ottanta. La rivolta scoppiò a seguito di alcuni casi di corruzione nel sistema di assunzione della Compagnia dei Fosfati di Gafsa. Oggi questo movimento sociale è largamente riconosciuto come il precursore delle manifestazioni che nel gennaio 2011 portarono il presidente Zine El Abidine Ben Ali a lasciare il Paese.

Nel rievocare queste memorie locali, sono rimasto affascinato dai ricordi di queste insurrezioni da parte degli abitanti. Il bacino minerario di Gafsa ha una lunga storia di proteste, azioni sindacali e resistenza armata contro i poteri del protettorato francese.

Foto di Stefano Pontiggia

Foto di Stefano Pontiggia

Quando mi stabilii a vivere a Redeyef, mi sembrò che l’occupazione sociale più importante fosse sedersi ai caffè.Decisi perciò di fare lo stesso e iniziai a parlare con i clienti, tutti quanti uomini. E fu a quel punto che trovai la noia. All’inizio la percepii come un umore che io stesso conoscevo e avevo già provato; ma col procedere della mia ricerca divenne chiaro che la noia era l’espressione locale dell’emarginazione e dell’esclusione.

Un luogo di esclusione

Fondata nei primi anni del ventesimo secolo sotto il dominio coloniale, Redeyef si trova nella “zona d’ombra” della Tunisia. Un drammatico squilibrio tra le regioni del nord-est e quelle del sud-ovest è un’eredità dell’economia coloniale impiantata nel Paese durante gli anni del protettorato. Dopo l’indipendenza nel 1956, diversi piani di sviluppo governativi hanno continuato a riprodurre questo squilibrio, favorendo la capitale Tunisi e le regioni costiere di Sousse, Monastir, Sfax e Biserta.

Le imprese turistiche, le attività economiche e finanziarie e le industrie manifatturiere sono prevalentemente concentrate a Tunisi e nel cosiddetto Sahel, la zona costiera orientale.

Di conseguenza, nel corso degli anni migliaia di famiglie tunisine povere hanno abbandonato le loro città per spostarsi verso la capitale e la costa. Secondo la Banca Mondiale, il 56% della popolazione e il 92% delle industrie del Paese sono concentrate a un’ora di macchina da Tunisi, Sfax e Sousse. Queste tre città costiere sono i centri dell’attività economica e rappresentano circa l’85% del PIL tunisino.

Dominato dall’industria estrattiva dei fosfati, il bacino minerario di Gafsa ha attraversato una crisi profonda verso la metà degli anni Ottanta. Il Piano di Aggiustamento Strutturale finanziato dall’FMI e dalla Banca Mondiale richiese una ristrutturazione della Compagnia dei Fosfati di Gafsa, la chiusura delle miniere più vecchie e il licenziamento del 75% dei lavoratori. Il governo però non compensò investendo nella regione, escludendola invece dagli investimenti pubblici e dai piani di sviluppo.

Foto di Stefano Pontiggia

Foto di Stefano Pontiggia

La disoccupazione nella regione si impennò. Anche dopo la rivoluzione un impiego stabile rimane un sogno. Nel 2012 il tasso di disoccupazione nel Governatorato era a 26,7%, contro una media nazionale del 17,6%.

Il regime autoritario di Ben Ali e la politica culturale hanno esacerbato questa disuguaglianza strutturale, che ha portato alla chiusura di ogni luogo di intrattenimento e consumo culturale della città (cinema, teatri, la salle de fêtes locale, etc.). Se non lavori, hai pochissime attività a disposizione per partecipare alla vita della città.

Definire la noia a Redeyef

Ero seduto a un caffè nel viale principale della città, fissando le macchine passare e le persone sfilare lentamente davanti a me. Ayoub, un ragazzo di trent’anni che lavora per la Compagnia dei Fosfati, era seduto a fianco. Dopo qualche minuto mi disse, sorridendo “Bella città, eh? Calma, tranquilla…non succede niente qui”.

Ayoub ha un buon lavoro e di tanto in tanto può mettere da parte del denaro che usa per costruire la sua casa. Lavora sei giorni alla settimana secondo un sistema di turni: mattina, pomeriggio o notte. È il primo a parlare di noia con me. Usando il francese, perché non parlo abbastanza bene dialetto tunisino, mi descrive la sua routine quotidiana.

Mi racconta di come sia annoiato dalla ripetizione, dai giorni che non cambiano mai: lavoro caffè casa.

Tuttavia, per “spezzare la routine” può visitare dei parenti in Algeria, andare nel deserto a Tozeur o sulle spiagge assolate del Sahel. Ayoub è fortunato, perché i disoccupati o i sottoccupati non hanno la sua fortuna.

In molte zone del Paese le opportunità di lavoro sono occasionali, le reti padronali gestiscono i pochi fondi pubblici stanziati per lo sviluppo regionale, mentre gli investimenti privati latitano. I cittadini vivono perciò in uno stato sospeso percepito come “morte sociale”, nell’attesa di un lavoro. In tempi incerti come quelli che la Tunisia sta vivendo al momento, l’”attesa” è diventa una forma precisa di governo dei cittadini che regola le vite delle persone escluse dal mercato formale.

Questo è esattamente il caso di Mohammed, un uomo di circa cinquant’anni che ho incontrato nel caffè vicino alla sede del sindacato. Era ritornato a Redeyef dopo vent’anni passati in Italia, dove ha fatto i lavori più disparati. Due anni fa ha vinto un posto in una compagnia privata finanziata dalla Compagnia dei Fosfati ed è tornato in Tunisia, ma alcuni problemi di corruzione nel sistema di assunzione gli hanno impedito di cominciare il lavoro. Passava i suoi giorni al caffè. Mi confidava che era costretto a chiedere alla madre i soldi per compare un caffè e un pacchetto di sigarette, una cosa che alla sua età lo faceva vergognare molto.

“Tutti i giorni sono uguali. La mattina vengo qui, prendo un caffè, fumo e poi vado a casa per pranzo. Poi dormo. Nel pomeriggio prendo un caffè. Mi sveglio la mattina e la mia giornata è sarà uguale a ieri, sarà uguale a domani. Questa non è vita”.

Una sera passavo vicino a una casa passeggiando con un amico. Vedemmo quattro uomini seduti su una panchina e il mio amico riconobbe fra loro un parente. Ci fermammo a parlare. L’uomo viveva in Francia ed era a Redeyef per prendere i documenti necessari al rinnovo del visto. Nel chiedermi cosa pensassi della città disse: “La vedi la città? Non c’è niente qui. Riesci a immaginare cosa voglia dire crescere qui? Non c’è vita a sud di Gafsa, lì c’è il confine, capisci cosa voglio dire?” “Siamo esclusi dalla vita, non abbiamo scelta”, aggiunge un uomo seduto accanto.
Il vuoto del tempo è talvolta espresso come assenza di vita: il tempo del fare niente equivale alla morte.


Attesa, azione sociale e soggettività

Considerata la disuguaglianza strutturale che affligge la regione sono poche le possibilità di cambiare la propria sorte. Eppure, tempo e temporalità non sono solo una forza oppressiva che spinge le persone alla passività: possono diventare anche una risorsa usata creativamente per rendere la vita sopportabile e costruire un orizzonte immaginario per il futuro. Pertanto, la vita scorre tra una routine quotidiana fatta di attesa, vuoto e uno sforzo di costruire un’alternativa al presente.

Ho incontrato Aymen, un uomo sulla trentina, nell’ottobre del 2014. Disoccupato da due anni, spendeva gran parte del suo tempo al caffè: “I miei giorni sono un copia-incolla il mio futuro non riserva sorprese. Mi sveglio e vado al caffè. I giorni sono sempre uguali, fino a che non muori”. Tra il 2004 e il 2013 ha vissuto a Monastir, sulla costa est, lavorando nel settore turistico per un salario bassissimo (circa 90 euro al mese), poi ha deciso di tornare a casa. Ha cercato lavoro nelle società locali aperte dallo Stato dopo le rivolte del 2008, ma corruzione e clientelismo hanno mandato in fumo ogni sforzo.

Foto di Stefano Pontiggia

Foto di Stefano Pontiggia

Ha una relazione problematica e ambigua con il suo passato, che descrive come un periodo difficile, sebbene allora lavorasse, oscillando tra la difficoltà della sua esperienza e la nostalgia per il passato. “La vita era dura” disse una volta al caffè. “Qualche volta non potevo pagare l’ostello e dormivo nei giardini pubblici, ma ogni giorno mi dicevo hamdoullelah, grazie a Dio, ho un lavoro qui”.

Aymen mi aiutò a tenere interviste con giovani che non parlavano francese; qualche volta mi domandai se non fosse influenzato da quello che ascoltava. Un giorno intervistammo due uomini che hanno partecipato al movimento sociale del 2008. Trovarono lavoro in seguito a un decreto governativo. I loro commenti ricordarono ad Aymen di quando aveva un lavoro.

“Rimpiango di non essere stato qui nel 2008, non per le rivolte, ma perché chi fu imprigionato ha poi trovato un impiego”.

Anche la relazione di Aymen col futuro era ambigua. Era un orizzonte immaginario riempito da due desideri differenti: fare del passato il proprio futuro (ossia ritornare a Monastir) oppure lasciare il Paese, cosa impossibile senza denaro.

Qualche settimana più tardi gli venne presentata una quarantenne francese che cercava un compagno; anche se non la amava, Aymen iniziò una relazione a distanza fondata su lunghe conversazioni via Skype. Lei si offrì di dargli cento euro al mese per non spostarsi sulla costa e lui accettò. Quando ci incontrammo sei mesi dopo, Aymen non era più preoccupato di essere disoccupato: tutta la sua energia era dedicata alla gestione della relazione per sposare la donna e lasciare la Tunisia. “Non ho scelta qui, diceva, voglio lasciare questo posto e lei è la mia occasione. Se mi porta in Francia sarò un marito fedele per tutta la vita!”

Attendere (il lavoro, il matrimonio, un’occasione per lasciare il Paese) è la condizione di vita di un crescente numero di giovani in Tunisia. Persone come Aymen esprimono la sofferenza che sentono in un modo che può essere meglio compreso attraverso la categoria della noia esistenziale. La mancanza strutturale di prospettive rende il tempo fermo e ripetitivo finché qualcosa di nuovo o inatteso accade generando la speranza che il futuro possa essere diverso dal presente.

Foto di Stefano Pontiggia

Foto di Stefano Pontiggia

La noia è spesso associata alla modernità, emerge dai processi dell’era moderna dell’Occidente: l’industrializzazione, il consumismo, la secolarizzazione. Tuttavia, il tempo può diventare anche una dimensione di emarginazione. Le persone escluse dall’obiettivo della “buona vita” (lavoro, servizi sociali, divertimenti) possono finire per vivere il tempo come una forma di oppressione: l’attesa e la disuguaglianza strutturale delle condizioni della Tunisia post-rivoluzionaria possono portare le persone a esprimere la loro sofferenza in una forma molto simile a ciò che i pensatori occidentali chiamano noia esistenziale.

Eppure questa emarginazione non è una mera esclusione da una temporalità dotata di significato: diversi passati, presenti e futuri si sovrappongono e variano in base alla situazione, guidando le vite delle persone e le loro scelte. Ciò fa dell’attesa un’esperienza complessa fatta sia di passività sia di creatività. Nel prendere decisioni sulla propria vita, persone come Aymen attendono e fanno fronte all’incertezza come il solo mezzo per avere finalmente una vita migliore e che abbia significato.