di Gianluca Pastori, tratto da Ispionline
Il ritiro di Ted Cruz dalla corsa per la nomination repubblicana dopo il largo successo ottenuto da Donald Trump nelle primarie dell’Indiana apre definitivamente, al tycoon newyorchese, le porte della convention di Cleveland del prossimo luglio. Anche se il candidato mainstream John Kasich ha già annunciato la sua intenzione di rimanere in corsa almeno finché Trump non avrà raggiunto il quorum di 1.237 delegati destinato a garantirgli la certezza matematica dell’investitura, le sue chance di successo appaiono quanto meno risicate.
Nemmeno “l’accordo di desistenza” che Cruz e Kasich avrebbero concluso prima dell’ultima tornata di voto è bastato a rallentare la marcia del rivale.
A questo punto, due questioni si pongono, anche alla luce del nuovo successo ottenuto da Bernie Sanders sul fronte democratico: quante possibilità di successo ha, in concreto, Trump nel testa a testa che si correrà il prossimo 8 novembre e quali implicazioni potrà avere un suo eventuale successo sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo? Dall’altra parte (e più sul breve periodo): che cosa insegna, oggi, al Grand Old Party, il consenso che Trump ha dimostrato di sapere raccogliere in vaste fasce della popolazione, in maniera trasversale in pressoché tutto il Paese? Se il primo punto ha un’importanza cruciale per comprendere quelli che potranno essere gli assetti geopolitici degli anni a venire ed il ruolo che gli Stati Uniti potranno giocare al loro interno, il secondo riflette una serie di cambiamenti che – riguardando la collocazione del GOP sulla scena politica USA e gli atteggiamenti complessivi del suo elettorato – appaiono destinati ad avere ricadute che vanno oltre i ‘semplici’ esiti delle elezioni .
Il messaggio di Donald Trump è stato, sinora, molto semplice, tanto nella forma quanto nei contenuti. L’appello all’‘America first’ si è tuttavia dimostrato pagante, soprattutto perché rivolto a un’opinione pubblica che, negli otto anni dell’amministrazione Obama, ha faticato a sanare le ferite del precedente ‘imperial overstretching’.
Sebbene criticata all’interno del partito, l’offerta ‘neo-isolazionista’ dell’outsider repubblicano ha toccato corde sensibili dell’elettorato; non a caso, essa sembra emergere – seppure con forme e toni diversi – anche nella proposta politica – radicalmente opposta – di Bernie Sanders.
In questo senso, una sfida Trump-Clinton rappresenta anzitutto una sfida fra due visioni alternative degli Stati Uniti come attore internazionale; una sfida che, in parte, richiama quella che nel 2000 aveva visto affrontarsi l’allora ‘neo-isolazionista’ George W. Bush e l’‘interventista democratico’ Al Gore, il Vicepresidente uscente che avrebbe dovuto rappresentare anche l’elemento di continuità rispetto alla politica dall’amministrazione precedente. Oggi come allora, tuttavia, la sfera internazionale costituisce solo una parte – e forse nemmeno quella più importante – di un confronto che riflette, anzitutto, due visioni diverse del rapporto fra cittadini e politica. Anche a questo proposito, le affinità fra l’‘antipolitico’ Trump e l’‘iperpolitico’ ‘socialista’ Sanders sono molte e potrebbero – paradossalmente – giocare a favore del primo, nella misura in cui la disaffezione per un candidato come Hillary Clinton – considerato da molti troppo compromesso con le logiche del potere tradizionale – rischia di riflettersi negativamente sui comportamenti di voto degli elettori democratici.
Al di là di quelli che saranno i risultati finali, quindi, la ‘meteora Trump’ un risultato lo ha ottenuto, ed è stato quello di sparigliare le carte di un gioco politico che la vittoria di Barack Obama, nel 2008, aveva cominciato a mettere in discussione.
Dietro ai successi del tycoon newyorchese ci sono elementi diversi, che spaziano dall’elogio ‘reaganiano’ dello Stato minimo alle già ricordate suggestioni isolazioniste, sebbene temperate del richiamo alla necessità di Stati Uniti militarmente forti e ‘muscolari’… Dietro a questi successi sembra esservi tuttavia, in primo luogo, la crisi di un modello di partito basato sulla centralità delle constituency ‘di riferimento’. La bruciante sconfitta del ‘cubano’ Rubio nella ‘sua’ Florida (27% dei consensi contro il 45,7% di Trump), così come l’incapacità del voto evangelico di sostenere le ambizioni dell’evangelico Cruz fuori di un certo numero di Stati core sono indicativi di tale dinamica. E’ forse questo il segnale più interessante che emerge dalle primarie di quest’anno. Un segnale tanto più significativo quanto più in controtendenza con quelli registrati nel passato e in parte figlio della critica radicale mossa al ‘vecchio’ GOP dal movimento del Tea Party. È troppo presto per ipotizzare che stia per cominciare una nuova epoca di campagne presidenziali ‘post-ideologiche’; è però degno di nota che, in entrambi gli schieramenti, dopo l’esperienza di rottura del 2008, candidati ‘nuovi’ come Trump e Sanders siano riusciti a mettere in crisi (seppure su scala diversa) i rispettive apparati di partito e a intercettare ampi consensi trasversali partendo dalla messa in discussione degli establishment tradizionali e delle forme e dei contenuti del loro fare politica.
*Gianluca Pastori è Professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.