di Ilaria Navarra
riceviamo e pubblichiamo
Sto organizzando le idee ma mi sfuggono.
Vorrei chiamare i giornali, vorrei qualcuno che mi aiuti a raccontarla. Lo so come si chiama questa sindrome da ritorno che ti isola dal mondo che hai lasciato alla partenza. L’ho vista in tutti quelli che tornano dalle missioni in posti di guerra o di “crisi” umanitarie.
E allora noi siamo state in missione? Siamo state in guerra? In soli due giorni? Ho già la sindrome del ritorno? Forse le risposte sono semplicemente si, si e si.
Quello che mi sorprende però non è questo, quanto la mia urgenza di raccontare quello che ho visto. Come dottore, come Ilaria. L’urgenza di fissare tutto prima che diventi ricordo, che le ore smussino l’intensità delle emozioni. E prima soprattutto che lì la situazione precipiti. Perché da quando sabato è stato lì Alfano tira una brutta aria. Tutte le civette dei giornali parlavano di sgombero.
Ovviamente non so da dove iniziare.
Potrei iniziare dalla fine. Dalla chat di whatsup dove io e Giovanna ci scriviamo in arabo. In arabo!!! Perché ho bisogno di esempi per far capire come in due giorni soltanto possono succedere le cose più incredibili.
Oppure potrei partire dall’inizio. Dalla foto della mia borsa sgangherata. Che abbiamo usato come valigetta del dottore. E mi viene da dire a mia mamma che basta un cuore da mettere in borsa e due gambe, la borsa da medico può stare a casa.
Oppure potrei raccontare di loro, due piccole donne grandi come giganti, che hanno scelto di stare lì. E loro l’arabo l’hanno imparato per davvero, senza studiare ma su spinte della necessità. Nel mondo moderno verrebbero chiamate mediatori culturali, non so se qualcuno glie lo ha mai detto. Ma non mi va di parlare del loro “lavoro”di mediazione, delle mie attese ad aspettare le traduzioni o le spiegazioni a tutte le domande che mi sembravano stupide. Vorrei far vedere la loro stanchezza, le loro mani che tradiscono la tensione.
Perché loro e gli altri ragazzi che sono lì a Ventimiglia non solo fanno tutto da volontari (!) ma sono tremendamente pochi per far fronte a questa che mi sembra una vera e propria emergenza o catastrofe umanitaria.
Perché se penso alla ragazza nigeriana di 22 anni, accovacciata nel parcheggio della stazione, in preda al panico, con in braccio il bambino di un anno, che non sapeva cosa fare né dove andare, nonostante lei avesse le “carte in regola”;
se penso agli occhi del ragazzo che dopo esser stato preso e picchiato, il giorno del nostro arrivo ha tentato il suicidio,
se penso a tutti loro che dormono nel letto secco di un torrente, in riva al mare, tra la spiaggia e il canneto, sole o pioggia che sia, provando e riprovando tutte le notti a varcar la frontiera, bé per me di catastrofe stiamo parlando.
E poi penso a F., sudanese. Anche lui ha la sua storia, ha fatto la sua traversata e ora aspetta che il tribunale accolga la sua richiesta. E nel frattempo sono mesi che è lì e non va via, ha imparato l’inglese e l’italiano e vuole rimanere per aiutare gli altri.
Nonostante fossimo a fare le visite sul letto polveroso del torrente, tra la sporcizia e la strada, non abbiamo avuto nessuna difficoltà a fare le domande a quei ragazzi che parlano spesso solo l’arabo. A chiedere da dove sono caduti, come si sono tagliati, a spiegargli che non ci sono medicine per la tosse se si dorme per strada con la pioggia, che non c’è cura per il loro mal di pancia.
Non so come avremmo fatto senza F. Ha fatto sì che noi avessimo la sensazione di aver già fatto quel lavoro mille volte.
E poi penso a tutti i grazie che ho ricevuto.
E allora penso a mia nonna e alle sue parole, “chi ringrazia si sente in debito”.
Allora grazie lo dico io. Perché niente sarà mai abbastanza per il debito che abbiamo nei confronti di tutti questi ragazzi.
E poi un grazie speciale va alla mia socia che ha avuto l’idea di fare quello che si diceva da tempo, cioè prendere e partire. E poi soprattutto ai ragazzi della rete No Borders. Non mollate. Mai.