Brexit e università

La possibile uscita del Regno Unito dall’Unione Europa
potrebbe portare grandi cambiamenti anche nel campo dell’istruzione, con forti ripercussioni per gli atenei britannici

di Emanuela Barbiroglio, da Londra

Se il Regno Unito voterà per lasciare l’Unione Europea il 23 giugno, molte cose cambieranno per molti. Contrariamente a quanto affermato dai fautori del cosiddetto Brexit, i controlli del confine non saranno una di queste. I controlli ci sono già e chiunque desideri entrare nel Regno Unito ha bisogno di un passaporto per passare i controlli con gli ufficiali della Border Force. Inoltre, le autorità possono rifiutare l’entrata di qualunque cittadino europeo sulla base di ragioni politiche pubbliche, salute pubblica, sicurezza. Il Regno Unito non fa parte dell’area di Schengen e quindi di fatto i confini sono già difficilmente permeabili. A cosa? Secondo gli euroscettici, alle immigrazioni incontrollate, all’arrivo dei rifugiati. O, per usare le parole del leader del partito indipendentista UKIP Nigel Farage, “ai terroristi, alle bande criminali e ai Kalashnikov.”

Ma anche alla circolazione delle idee. Rinunciando alla sua presenza in Europa, il Regno Unito potrebbe perdere una buona fetta dei suoi studenti, scoraggiati dall’aumento delle tasse universitarie. Attualmente le tasse universitarie raggiungono le vette più altre del mondo, con £6000 in media sborsati a testa per un corso annuale full-time. Questo è il prezzo pagato dai britannici e dagli europei, ma gli studenti cosiddetti “internazionali” arrivano a erogare spesso il doppio.

Il 5.5 per cento dell’intero corpo studentesco britannico potrebbe essere influenzato dal referendum.

I dati rilasciati dall’Higher Education Statistics Agency (HESA) mostrano che 124.580 studenti con domicilio in un altro paese dell’Unione erano iscritti alle 163 università britanniche lo scorso anno accademico. In particolare, erano 46.230 gli europei iscritti a corsi di laurea postgraduate – costituendo l‘8,59 per cento del totale – e 78.350 gli undergraduate – 4,53 per cento. La differenza è dovuta al fatto che molti si laureano nel paese di origine e si spostano soltanto in un secondo tempo per quello che potremmo considerare un corso di studi a metà strada fra un master e una magistrale italiana.

Contati per nazionalità anziché per domicilio, la proporzione sale al 9 per cento. Vengono dalla Germania (13.675 studenti), dalla Francia (11.955), dall’Irlanda (10.905), Italia (10.525), Grecia (10.130), Cipro (9.745), Spagna (7.040), Romania (6.590), Bulgaria (6.255) e Polonia (5.245). Non stupisce quindi che le principali università stiano facendo pressione proprio per rimanere in Europa. In una lettera aperta al Sunday Times 103 università si sono dichiarate a favore dell’appartenenza all’Unione Europea, ribadendo i vantaggi economici e culturali dell’adesione.

Interi corsi presso alcune delle principali università sono basati su una larga parte di studenti europei.

È il caso della London School of Economics, una delle più prestigiose università, che conta ben 1.834 studenti europei e 306 sono iscritti al solo corso di Management. Ed è proprio Londra, meta della maggior parte degli arrivi, che potrebbe risentire maggiormente di questa perdita. Otto delle dieci università col più alto numero di iscritti europei sono nella capitale. In totale sono 32.780 e studiano soprattutto materie artistiche: al Royal College of Art, la Royal Academy of Music, il Royal College of Music, la Guildhall School of Music and Drama e il Trinity Laban Conservatoire of Music and Dance. Per tutti loro non sembra esserci un piano.

La London School of Economics ha ospitato la scorsa settimana una discussione presieduta dal direttore Tony Travers su come il Brexit potrebbe cambiare Londra. C’erano la portavoce europea dei Liberali Democratici Sarah Ludford, il professore di Cambridge Christopher Bickerton, il giornalista Ben Judah e l’esperta di politica europea Julie Smith.

“La formazione universitaria e la ricerca contano molto,” ha detto Smith. “Ma in termini di tasse, non penso che nessuno sia ancora arrivato a una soluzione”.

Anche gli stessi studenti britannici potrebbero perdere alcuni dei loro vantaggi, come la possibilità di accedere alle borse di studio messe a disposizione col programma Erasmus. Alcuni di loro nel 2013 hanno quindi formato un gruppo, Students for Europe, proprio per far sentire la loro voce: “Fare parte dell’Europa significa che ci vengono garantiti diritti come la maternità, le ferie e il diritto di non venire discriminati per razza, orientamento sessuale o disabilità. Senza l’Europa, i governi nazionali sarebbero meno desiderosi e meno capaci di difendere quei diritti che spesso diamo per scontati”.

 

L’immagine della sede della London School of Economics in apertura è una foto di Jim Larrison tratta da Flickr in CC