Dal decano della “letteratura narrativa” (ammesso che esista letteratura che non contempli narrazione) un reportage sull’ultima frontiera verso nord di quell’imbuto chiamato Europa.
di Alessandro Di Rienzo
Emmanuel Carrère è stato per quindici giorni a Calais e ha prodotto un reportage di 40mila battute. Ha provato a raccontare la cittadina senza parlare con e dei migranti. Ci è riuscito in parte, non ha avvicinato i richiedenti asilo ma la loro presenza è argomento inevitabile di tutte le conversazioni riportate. Nel libricino “A Calais”, pubblicato in Italia per Adelphi, l’autore spiega le ragioni dei no border incalliti come del successo del Front National. Prova a svestirsi della sahariana che etichetta la grande firma sul territorio di confine ma, come spesso accade con Carrére, tale tentativo è l’argomento principale della narrazione.
Interessante il dialogo immaginario, o due monologhi paralleli, con una presunta cronista locale che in una lettera anonima gli riversa quel quasi disprezzo che i piccoli artigiani dell’informazione nutrono per le firme che, anche involontariamente, producono sensazionalismo. Carrére dichiara che 15 giorni sono pochi per capire Calais, ma per un buon reportage sono certo sufficienti, e dissimula di ridurre al minimo quell’atteggiamento nannimorettista che caratterizza tutta l’opera prodotta: 70 pagine sul suo rapporto con la religione prima di parlarci supernamente di San Paolo ne “Il Regno”; continui riferimenti a se stesso disseminati in tutto il volume “Limonov”.
Anche per questo lavoro vale la massima che proprio Eduard Limonov ha riservato a Carrère per il libro che lo racconta: «ha spiegato Limonov ai borghesi. Speriamo capiscano». Qui Carrère ha parlato di Calais, accennando alle sue contraddizioni, alla borghesia francese. Una borghesia, come quella italiana, in affanno nella produzione di un immaginario universalista credibile.