di Ilaria De Bonis
foto di Michele Marangon
I braccianti sikh della Pontina rialzano la testa. Riscoprono la loro combattiva natura: pacifica, ma finalmente arrabbiata. D’altronde il decimo guru, secondo il sikhismo, fu un guerriero.
Gli indiani del Punjab sono scesi in piazza contro il padrone, qui nel Lazio. Dove caporalato e aziende agricole risultano conniventi, il latifondista di provincia (Latina e dintorni) è spesso un agricoltore senza scrupoli, per di più a conoscenza del traffico di uomini alla base della tratta dal subcontinente.
A raccontarci la nuova resilienza indiana, dopo lo sciopero riuscitissimo del 18 aprile scorso a Latina, è Marco Omizzolo. Sociologo, ricercatore, giornalista, attivista e grande amico della comunità punjabi di Sabaudia.
“La manifestazione di Latina è straordinariamente importante: un evento storico – dice- E’ stata preparata nei dieci giorni precedenti da occupazioni pacifiche e proteste e continua oggi con i presidi. Si tratta di una svolta nella consapevolezza degli indiani sikh di avere dei diritti”.
Quel corteo di turbanti, dove a prevalere era il rosso delle bandiere Flai-Cgil, è stato un successo enorme per varie ragioni. Perchè è arrivato dopo anni di lavoro dal basso, e tentativi (durissimi) di far emergere il disagio.
Anni di volontariato, assistenza giuridica, corsi di italiano, denunce informali, battaglie legali. Per la prima volta in modo eclatante lo sciopero è entrato nella pianura Pontina. Ad incrociare le braccia sono gli ultimi tra gli ultimi dei lavoratori della terra. E hanno messo le aziende con le spalle al muro.
«I padroni sono avvelenatissimi!», conferma Omizzolo. Il leader sikh che guida la protesta ha ricevuto minacce di morte e lo stesso Omizzolo da tempo subisce intimidazioni e minacce.
I potenti si sentivano al riparo. Non hanno mai temuto che i lavoratori indiani, abituati a vivere nelle baracche di lamiera e a subire umiliazioni di ogni sorta (botte, abusi, furti) per 3 euro e 50 l’ora, potessero un giorno dire “no”.
LE IMMAGINI DELLO SCIOPERO DEL 18 APRILE SCORSO TRATTE DAL SITO DELL’ASSOCIAZIONE IN MIGRAZIONE
“La nostra battaglia prosegue – racconta Marco – saremo davanti alle aziende. Quelle che continuiamo a monitorare sono una cinquantina. Ogni domenica ci riuniamo a Borgo Hermada dove facciamo il punto della situazione con 200 persone e cerchiamo di puntare sull’unità. Il primo obiettivo è non farci comprare dai padroni. Accade che magari in sede negoziale, a noi dicono che li pagheranno 5 euro l’ora, ma poi sottobanco, offrono ai lavoratori 4,50 e qualcuno accetta”.
La parola d’ordine è: restare pacifici. No all’uso della violenza per non scendere al livello dei datori di lavoro, che invece la usano eccome. Ma non sono gli unici: c’è un sistema di mafie e di tratta di uomini che parte dal subcontinente indiano. Gli attori sono tre e il trafficante indiano agisce su mandato dell’agricoltore.
Questo intricato rapporto è analizzato da Omizzolo nel suo ultimo lavoro Il sistema criminale degli indiani punjabi in provincia di Latina, pubblicato nel volume di Francesco Carchedi Mafie straniere in Italia, come operano come si contrastano.
Dall’altra parte della barricata ci sono persone senza protezione. A guidare i braccianti c’è un sikh:”Si chiama Gurmukh Singh, è molto apprezzato dalla comunità, conosce bene l’italiano, vive qui da vent’anni e adesso ha una sua attività commerciale a Sabadudia. E’anche leader religioso al tempio sikh”.
Le rivendicazioni: i braccianti (25mila tra Latina e dintorni, 15mila non registrati) chiedono anzitutto un aumento della retribuzione dagli attuali 3 euro e cinquanta l’ora, ai più dignitosi 5 euro. In secondo luogo vogliono un trattamento più umano ed orari di lavoro non schiavisti. Finora le ore lavorate erano anche 14 al giorno.
I report e i dossier pubblicati nel tempo dalla onlus In Migrazione (guidata da Omizzolo) parlano di maltrattamenti fisici e psichici, condizioni di vita estreme e addirittura doping.
Quando Marco ci racconta l’atmosfera di oggi nelle assemblee, e di come anche le donne indiane stiano scendendo in piazza, ci scorrono davanti sequenze di film alla Ken Loach.
I ricatti dei padroni e il tentativo di comprarsi dei consensi, sono gli stessi ad ogni latitudine.
La parte dell’oppresso stavolta tocca a un popolo mite e pacifico, immigrato dal Punjab oltre vent’anni fa che pratica un’antica religione divenuta uno stile di vita, un’indole di mitezza quasi. Ma anche di forza e meditazione.
Il rispetto per il padrone è insito nella visione del sikhismo, così come l’attaccamento al lavoro. Ma questo padrone qui non ha mai rispettato i lavoratori.
“Abbiamo anche avviato delle cause contro alcune aziende, ma ci vogliono almeno tre anni per ottenere giustizia. E nel frattempo molti lavoratori sono stati licenziati. Ci sono casi di donne maltrattate, che hanno subito abusi e ricatti sessuali- racconta Marco Omizzolo – Domani vado ad incontrarne una che è stata malmenata nel nord di Latina. Questa ragazza trentenne, è molto coraggiosa: ha raccontato tutto nel corso di una nostra assemblea, in lacrime. Non è facile per le donne, abituate al silenzio e a star nell’ombra, denunciare gli abusi”.
Quello che solo cinque anni fa sembrava impossibile ed era un mix di timore, fiducia mal riposta nel datore di lavoro, capacità di sopportazione oltre ogni limite, oggi si trasforma in rabbia, rivalsa collettiva e desiderio di ottenere il giusto.
“Questo è il grande successo degli scioperi. Dal 18 aprile ad oggi non ci siamo mai fermati: proseguono le manifestazioni davanti alle aziende agricole, i presidi e gli scioperi”, conferma Marco.
Dalla parte degli infaticabili raccoglitori di pomodori e zucchine, cocomeri e peperoni, ci sono i sindacati. Ma soprattutto c’è l’associazionismo, con la onlus In Migrazione che per prima ha denunciato gli abusi a partire dal 2011. E poi sempre di più c’è un’intera collettività che li difende.
“Queste vite sommerse e ben nascoste, occultate da un sistema che è nato per lo sfruttamento, adesso stanno emergendo”, spiega Omizzolo. E lui lo sa bene visto che è stato il primo ad avvicinarsi al fenomeno del bracciantato indiano nel 2010 e addirittura a fingersi lavoratore sikh per poter testimoniare l’ingiustizia.
“Ho iniziato a frequentare il tempio sikh nel 2008 – ci raccontò Marco all’inizio di questa nostra conoscenza – Ho passato un periodo di tempo lungo frequentando la comunità: mangiavo con loro, stavo con loro. Ho preso tutti i libri possibili e ho cercato di studiare la loro organizzazione in Punjab, la storia e la lingua”.
Durante il secondo anno di dottorato di ricerca Marco parte: “Mi ritrovai alle tre del mattino all’appuntamento stabilito, a Bella Farnia, per questo viaggio in Punjab completamente alla cieca. Loro mi hanno ospitato e scortato in viaggio per un mese e mezzo”.
Di ritorno dall’India i tempi sono maturi per immergersi nell’altro ‘sistema’: quello italiano, corrotto e illegale.
“Ad un certo punto ho deciso di fare un’esperienza estrema. Ho cercato la squadra di coltivatori che mi garantiva maggiori condizioni di anonimato. Facevo già pubblicamente battaglie sulla legalità ma ancora non mi conoscevano. Sono andato nei campi vestito da bracciante. Non mi camuffavo da indiano. Prendevo le loro biciclette e andavo nel campo, avevo il cappellino e la barba”, ricorda.
Quello che vede inizia a descriverlo.
“Il datore di lavoro li obbligava a fare tre passi indietro e ad abbassare la testa quando si rivolgevano a lui, e dovevano chiamarlo padrone. In molti casi li costringeva a togliere il turbante, che per i sikh significa mortificazione e perdita di identità”.
Marco decide così di prendere seriamente a cuore tutta la questione. E l’avventura va avanti ancora oggi. Per fortuna il fronte del no di Marco si è allargato parecchio e la sua battaglia è diventata quella di molti.
“Non è vero che il sindacato ha esaurito la sua funzione – dice – qui siamo di fronte a nuovi conflitti sociali. I diritti di un tempo si stanno cancellando e dall’altra parte c’è gente che possiede tutti gli strumenti classici della repressione e dello sfruttamento, con in più i vantaggi di quest’epoca storica. La lotta dunque oggi è ancora più sottile, più difficile”.
Non ha senso mollare proprio adesso. Marco cita il mondo che ruota attorno alle aziende agricole, nello specifico. Ci sono avvocati, commercialisti, professionisti che sanno bene di star difendendo degli abusi, diventati ormai violazioni di diritti umani, eppure si prestano.
II fronte del no è quello dei diritti di tutti: e il sindacato di domani non avrà più le sembianze di quello di ieri, ma dovrà rappresentare ancora meglio i lavoratori e i disoccupati di oggi.
Le armi devono essere più sofisticate e le persone decisamente più consapevoli.