Tra cartone animato e documentario, la storia di 18 mucche che a Beit Sahour, Cisgiordania, divennero il simbolo della resistenza alla dipendenza economica da Israele durante la Prima Intifada
Di Clara Capelli
Una delle cose che non possono lasciare indifferenti in Palestina è il continuo rincorrersi tra la repressione dell’occupazione e la creatività della resistenza. Questo è uno dei temi chiave di The Wanted 18, interessante e irriverente film del palestinese Amer Shomali e del canadese Paul Cowan sull’esperienza di una cooperativa che nel 1988, in piena Prima Intifada, decise di allevare 18 mucche per la produzione di latte palestinese a Beit Sahour, municipalità del governatorato di Betlemme.
Il contesto politico ed economico è fondamentale per capire l’importanza della storia. I Territori Palestinesi erano allora controllati direttamente da Israele, i palestinesi pagavano le tasse a Israele e la loro economia era di fatto integrata e dipendente da quella israeliana. Praticamente nulla è cambiato con gli Accordi Oslo e il Protocollo di Parigi (il documento che disciplina i rapporti economici tra Autorità Nazionale Palestinese e Israele), ma questa è un’altra storia ancora.
Il cuore pulsante dell’indignazione, della protesta e della resistenza dell’Intifada riguardava proprio il perseguimento di un obiettivo di indipendenza da Israele.
Ecco perché i cittadini di Beit Sahour indicono uno sciopero fiscale rifiutandosi di pagare le tasse a Israele, organizzano alcune iniziative di autogestione e acquistano da un kibbutznik compiacente 18 mucche per poter produrre Haleeb al-Intifada, il latte dell’Intifada, aggirando così l’obbligo di acquistare il latte dalla compagnia israeliana Tnuva.
Per cultura di pastorizia e conformazione del territorio, la Palestina non è terra dove si sia particolarmente avvezzi all’allevamento delle vacche. Tutt’altro. Per i promotori dell’attività – il professor Jalal, il farmacista Elias e la macellaia Virginia – e i loro aiutanti non sarà quindi facile familiarizzare con gli animali e imparare a prendersi cura di loro, con risultati a dir poco esilaranti. Fino al giorno in cui l’esercito israeliano dichiarerà le 18 mucche “un pericolo per la sicurezza di Israele”, costringendo gli abitanti di Beit Sahour a inventarsi una serie di stratagemmi per nasconderle e continuare a recapitare il latte agli abitanti della cittadina.
Le 18 fuggitive diventano il simbolo di una comunità che si riunisce intorno a un ideale comune e che per esso lotta.
E a completare questo racconto ci sono i barbecue sui balconi per sfidare il coprifuoco, le partite a tawla (backgammon) attendendo gli interrogatori delle forze di sicurezza israeliane, le manifestazioni e le proteste degli shabab palestinesi, la paura delle madri per ciò che potrebbe accadere ai loro figli. Un sogno di dignità, indipendenza e comunità che si infrangerà con la firma degli Accordi di Oslo e la continuazione dell’occupazione con altri mezzi e altre declinazioni.
L’architettura del racconto è indubbiamente vincente. Il narratore è lo stesso Shomali, nato in Kuwait e rifugiatosi nel campo di Yarmouk in Siria dopo l’espulsione dal Paese. Durante la sua infanzia Shomali divora un fumetto dopo l’altro. Uno di questi racconta proprio la storia delle mucche di Beit Sahour e del latte dell’Intifada, alimentando l’immaginario del ragazzo che sogna di una Palestina come un luogo mitico di solidarietà e utopia. Quando anni dopo riesce finalmente ad arrivare in Cisgiordania rimarrà deluso, trovandosi a che fare con una generazione di coetanei individualisti che anelano a una vita normale e agiata. Cosa rimane dello spirito di lotta e cooperazione dell’Intifada?
Per ricostruire la vicenda, Shomali alterna interviste ai diversi protagonisti della storia a spezzoni in claymation (la tecnica dei cartoni animati in plastilina) realizzati da Cowan, nei quali sono 4 delle 18 mucche a raccontare la storia dal loro punto di vista: dallo spiazzamento e la diffidenza di fronte ai palestinesi che non sapevano cosa fare con loro, alla fatica per i continui spostamenti per sfuggire ai controlli israeliani fino alla disperazione per la fine dell’esperienza della cooperativa, parallela alla firma degli Accordi di Oslo.
Il risultato è a tratti irresistibile nella sua comicità, una celebrazione della resilienza tenace e creativa dei palestinesi di fronte all’oppressione israeliana.
L’uso dell’animazione e dell’ironia è anche un escamotage per stemperare le sofferenze di quegli anni, i ragazzi braccati, la violenza, la paura. È infine un modo per riconsegnare mestamente al mondo delle utopie e delle storie per bambini lo spirito di cambiamento che animò l’Intifada.
Probabilmente chi poco conosce la Palestina e la sua non-economia – drogata da aiuti che finiscono per perpetrare gli schemi di dipendenza da Israele – faticherà a comprendere pienamente il significato dell’esperienza della cooperativa del latte dell’Intifada, il film purtroppo non fornisce sufficienti elementi in questo senso. Ma a qualsiasi livello di conoscenza è impossibile non commuoversi per le 4 mucche “rivoluzionarie” e il sogno di Beit Sahour.
Perché a volte, come conclude Shomali, è necessario ostinarsi a credere nell’utopia. Nonostante tutto, nonostante questa possa addirittura prendere le sembianze di un mucca dal manto bianco che si nasconde in una grotta in attesa di giorni migliori.