Egitto. Di sovranità e impunita repressione

Arresti preventivi, rastrellamenti, oltre 50 persone incarcerate, tra cui l’avvocato Malek Adly e Ahmed Abdallah, dell’organizzazione che sta fornendo consulenza per il caso Regeni. E’ questa la risposta del regime egiziano alle manifestazioni contro la vendita delle isole del mar Rosso all’Arabia Saudita, paradigma di un malcontento popolare mai sopito

di Giovanni Piazzese, tratto da OsservatorioIraq – Medio Oriente e Nord Africa

Anche in Egitto il 25 aprile è ricordato come una data da celebrare. Esattamente 34 anni fa, le truppe israeliane abbandonavano il Sinai, con eccezione della città di Taba, restituendo al governo del Cairo la penisola persa durante la guerra del 1967 ed esaudendo così una delle richieste sottoscritte negli Accordi Camp David del 1978.

Da allora, il 25 aprile è entrato di diritto tra le principali feste nazionali, con le scuole e gli uffici pubblici chiusi e le tv impegnate a trasmettere i discorsi alla nazione di Mubarak e le immagini della guerra del 1973.

L’ultimo anniversario della liberazione del Sinai, però, non sarà certo ricordato per i canti e i balli che i cittadini egiziani hanno potuto intonare ed eseguire in piazza Tahrir e in altre zone del paese.

Mentre alcuni di loro, indisturbati e sotto gli occhi delle forze di sicurezza, hanno potuto festeggiare il riscatto della penisola, issando l’effigie di Abdel Fattah al-Sisi e le bandiere saudite, tanti altri hanno colto l’occasione delle celebrazioni per protestare contro l’attuale presidente, il suo governo e gli apparati di sicurezza.

Tutti accusati a vario titolo di autoritarismo, inefficienza, corruzione e indicati come la causa dell’assenza di pluralismo e libertà d’espressione, oltre alle mai scomparse accuse che vedono gli apparati dello Stato protagonisti di detenzioni preventive, torture e sparizioni.

Non ultimo, anche il caso delle isole Tiran e Sanafir è finito nel calderone delle proteste.

Entrambe le isole, situate nel Mar Rosso dinanzi a Sharm el-Sheikh, sono state cedute all’Arabia Saudita l’8 aprile scorso con un accordo firmato dal primo ministro Sherif Ismail e il re Salman per definire i confini marittimi tra i due paesi. In cambio, Il Cairo riceverà almeno 16 miliardi di dollari per la creazione di un fondo comune d’investimento, creerà una zona di libero scambio nel Sinai tra i due paesi e continuerà ad accogliere i progetti infrastrutturali promossi dalle imprese saudite nel settore residenziale e agricolo.

Inoltre, un ulteriore accordo di circa 23 miliardi di dollari consentirà all’Egitto di ricevere 700mila tonnellate di petrolio al mese. Secondo i sauditi e le stesse autorità egiziane, le isole spetterebbero di diritto alla famiglia reale essendo state cedute nel 1950 all’Egitto poiché Riyadh non avrebbe potuto difenderle contro un eventuale attacco d’Israele.

Eppure, sono molti i dubbi che circondano la questione e che hanno suscitato l’ira di tanti cittadini egiziani, la cui protesta non si è fatta attendere, così come l’ondata di arresti che li ha colpiti.

Il 15 aprile, infatti, la polizia ha arrestato almeno 50 persone (anche se altre fonti riferiscono di 80 arresti), e disperso diverse centinaia di manifestanti radunatisi presso il Sindacato dei giornalisti per protestare contro la “svendita” del loro paese.

Urlando slogan contro l’attuale regime e muniti di cartelli con su scritto “Awad ha venduto la sua terra” – uno slogan che richiama la storia del contadino Awad diffusa dalle radio nazionali al tempo di Nasser per sottolineare l’importanza e il valore della terra per il popolo egiziano – i partecipanti hanno attraversato alcune vie del centro salvo poi essere immediatamente attaccati dalle forze di polizia dislocate in tutta l’area circostante.

Da quel momento, la polizia egiziana ha cominciato a rastrellare case, bar e altri luoghi di aggregazione in cerca di persone sospette da poter arrestare, o semplicemente da poter accusare, e dare l’impressione di poter mantenere la situazione sotto controllo.

Secondo alcune fonti ci sarebbero stati più di 100 arresti nei giorni che hanno preceduto le celebrazioni del 25 aprile, intervallati dalle dichiarazioni del ministro dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar che ha più volte ammonito chiunque avesse preso parte alle manifestazioni.

Nonostante gli avvertimenti, c’è chi ha deciso di scendere in strada sfidando la notevole presenza di forze di polizia e agenti in borghese; alcuni sono stati fortunati e hanno potuto far sentire la propria voce per pochi minuti prima di sfuggire alla rappresaglia delle forze di sicurezza, mentre molti altri sono stati arrestati quasi subito, se non addirittura prima di poter arrivare nei luoghi della protesta.

L’aspetto paradossale è stata l’assoluta libertà concessa ai sostenitori di al-Sisi, i quali hanno potuto sfilare nelle strade del centro celebrando qualcosa che fino a poche settimane fa nessun egiziano si sarebbe mai sognato di fare.

Se per loro, infatti, è stato possibile sfoggiare liberamente le bandiere saudite e le foto dell’ex generale, allestendo addirittura dei palchi con musica e slogan che osannavano le forze armate, per i suoi oppositori è stato invece impossibile avvicinarsi ai punti di partenza dei cortei. Inoltre, va detto che né prima né dopo la rivoluzione del 2011 gli egiziani hanno mai organizzato marce commemorative, balli e canti per festeggiare la liberazione del Sinai.

“E’ sembrata più una contro-manifestazione indetta per bilanciare quella organizzata dagli oppositori di al-Sisi e di coloro che non vogliono cedere le isole all’Arabia Saudita” sostiene Mohanad, attivista presso l’organizzazione per i diritti delle donne egiziane Basmaa.

Secondo i dati pubblicati dal Fronte Egiziano per la Difesa dei Manifestanti, tra il 15 e il 27 aprile sono state fermate 1.277 persone.

“La polizia ha perquisito meticolosamente chiunque potesse anche solo sembrare un individuo sospetto, controllando persino i contatti, le foto e le chat nei rispettivi cellulari. La maggior parte di queste persone è stata rilasciata, tra cui anche 4 giornalisti francesi trattenuti per alcune ore, mentre 238 sono state poste in stato di fermo” riferisce Mohamed Lotfy, direttore della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, un’organizzazione che fornisce aiuto legale a chi non può permetterselo.

Come riferisce Lotfy, la metà di queste persone è stata rilasciata su cauzione con cifre che oscillano tra 300 e 3mila sterline egiziane (29 – 298 euro), mentre circa 120 persone si trovano in stato di fermo preventivo presso le stazioni di polizia di Dokki, Agouza, Abdeen, Kilo 10.5, Boulak al-Dakrour e Alessandria o sono in attesa di essere giudicate.

Tra le diverse accuse mosse contro di loro compaiono la violazione della legge sulle proteste e la diffusione di notizie false, nonché le minacce alla stabilità del paese e la cospirazione contro lo Stato.

Temendo una degenerazione delle proteste, di cui il caso delle due isole non rappresenta che la punta dell’iceberg, la strategia della polizia è stata fin da subito quella di prevenire qualsiasi assembramento predisponendo un alto numero di agenti, anche in borghese, che hanno fermato praticamente chiunque.

Tra i video diffusi in rete ce n’è uno in cui si vede chiaramente un ragazzo, da solo, camminare su un marciapiede con accanto un pick-up della polizia pieno di manifestanti, o presunti tali. Apparentemente senza una ragione precisa, il ragazzo viene preso per il braccio da un poliziotto che, insieme ad altri colleghi, lo spinge dentro il pick-up.

Quello stesso giorno, nel villaggio di Fayoum a circa 120 chilometri a sud del Cairo, il 15enne Hamza Hussein Salih è stato tratto in arresto mentre si recava ad una lezione privata insieme ad altri amici.

“Lungo il tragitto si sono ritrovati in mezzo ad una manifestazione, ma la polizia ha subito caricato i manifestanti arrestando, tra gli altri, anche Hamza” riferisce un suo parente che preferisce non rivelare il proprio nome. “Hamza non ha in alcun modo preso parte alle manifestazioni, ma la polizia sostiene di averlo catturato con un cartello con su scritto Awad ha venduto il suo paese”, ha aggiunto. Ad oggi, Hamza è stato detenuto per quasi 3 settimane in una cella condivisa con altri adulti, nonostante le leggi egiziane prevedano spazi separati per gli uni e gli altri.

Il 27 aprile, giorno in cui c’è stato un primo incontro con il procuratore, la madre ha potuto vedere il figlio in lacrime e con un penetrante odore di fumo addosso ai vestiti. “Hamza al momento non divide la cella con degli attivisti o dei prigionieri politici, ma con dei comuni criminali. Questo rende la sua detenzione ancora più dura e difficile e temiamo possa accadergli qualcosa” sostiene il familiare. Hamza avrebbe dovuto incontrare nuovamente il procuratore il 3 maggio, ma il suo caso è stato rimandato alla settimana successiva. Appena pochi giorni fa, il procuratore ha dunque deciso di estendere di altri 15 giorni la detenzione del minorenne.

A finire dietro le sbarre è stato anche il professore d’ingegneria dell’Università del 6 Ottobre Ahmed Abdallah. Abdallah è anche il presidente del Consiglio d’amministrazione della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, la stessa organizzazione diretta da Lotfy e che ha prestato assistenza e consulenza legale alla famiglia Regeni.

Abdallah è stato arrestato dalle forze speciali egiziane alle 3 del mattino del 25 aprile presso la sua abitazione a Nuovo Cairo e trasferito nella vicina stazione di polizia Nuovo Cairo n°1 dove è rimasto fino alle 9 del mattino prima di essere condotto nella procura dell’Abbaseya, ad est della città.

“Tra le diverse accuse mosse contro Abdallah c’è quella di appartenere ad un’organizzazione terroristica, di voler cospirare contro la stabilità del paese, di diffondere false informazioni attraverso la rete che minacciano la pace sociale, di aver istigato all’uso della violenza, di aver mobilitato le masse per la protesta del 25 aprile” sostiene Lotfy.

Il procuratore ha così optato per una custodia cautelare di 4 giorni, salvo poi estenderla a 15 il giorno successivo. Al momento, Abdallah si trova ancora nella stazione di polizia Nuova Cairo n°1 e non risulta che abbia subito abusi o violenze. Il 7 maggio il procuratore ha esteso di altri 15 giorni la custodia di Abdallah anche se, sostiene Lotfy, “faremo ricorso”.

“Si tratta di accuse false – riferisce il direttore dello studio legale – e sebbene la polizia sostenga che Abdallah faccia parte del Movimento 6 Aprile, in realtà gli unici volantini che sono stati trovati in casa risalgono ad alcuni anni fa e riguardano il Partito Nazionaldemocratico e l’Associazione Nazionale per il Cambiamento di El-Baradei. Non mi sorprenderei, dunque, se il suo arresto fosse stato eseguito per impedirci di fare il nostro mestiere” conclude Lotfy. Il 12 maggio, però, la Corte d’appello di Ain Shams ha rigettato il ricorso, confermando gli ulteriori 15 giorni di detenzione per Abdallah.

Come lui, tante altre persone si trovano in carcere. Tra loro c’è Abdo, un giovane fotografo e rivoluzionario sempre in prima linea il cui volto è apparso tra i graffiti di via Mohammed Mahmoud nel 2012, condannato a 5 anni di reclusione.

Ma c’è anche Beko – anche per lui la stessa condanna – che ha prestato servizio di volontariato presso le organizzazioni anti-violenza sulle donne come Opantish e Imprint.

Nei giorni successivi alla protesta la polizia ha poi fatto irruzione nella sede del Sindacato dei giornalisti arrestando i due reporter Amr Badr e Mahmoud el-Sakka, sostenendo che i due volessero utilizzare il sindacato come un luogo sicuro dove proteggersi. Anche per loro l’accusa è di voler destabilizzare il paese e di aver violato la legge sulle proteste.

L’ultimo ad essere stato arrestato in relazione alla manifestazione del 25 aprile è l’avvocato Malek Adly, uno dei fondatori del Fronte Egiziano per la Difesa dei Manifestanti e membro del team che difende il medico delle carceri egiziane Taher Moukhtar.

Moukhtar, noto per le sue campagne di sensibilizzazione per un miglior trattamento dei detenuti, si trova in carcere da ormai 4 mesi ed è accusato di voler sovvertire il regime perché trovato in possesso di volantini giudicati pericolosi dalla polizia egiziana.

Da quando è scoppiato il caso delle isole Tiran e Sanafir è come se si fosse scoperchiato un vaso di pandora dai contenuti altamente esplosivi. Nessuno tra coloro che hanno manifestato contro la decisione di al-Sisi ritiene di aver protestato solo per questo motivo, ma non ci sono dubbi che la cessione delle due isole all’Arabia Saudita abbia rappresentato un elemento propulsivo determinante.

Volendo andare oltre la questione di chi abbia effettivamente diritto al controllo delle due isole, bisognerebbe considerare molto brevemente alcuni aspetti. Il primo è che non basta essere un ex membro delle forze armate che predica unità e stabilità per essere dei veri patriottici.

La vicenda delle isole, infatti, segnala una rottura della narrativa di al-Sisi, del suo voler essere “padre” di tutti gli egiziani che, proprio in virtù del suo ruolo, sa bene cosa fare e quale strada imboccare.

Dal 2013 parole quali sicurezza, stabilità, prosperità e unità sono diventate il mantra dell’attuale presidente, ma nessuno di questi obiettivi è mai stato raggiunto. La cessione di Tiran e Sanafir, dunque, ingrandisce una crepa già esistente e ha catalizzato la rabbia popolare contro un regime che appare sempre più in difficoltà e lontano da quanto aveva promesso inizialmente.

Il secondo elemento è che con ogni probabilità al-Sisi e il suo governo non hanno previsto quanto questa operazione gli si potesse ritorcere contro.

Il paese continua ad avere un disperato bisogno di dollari e la cessione delle due isole avrebbe in qualche modo alleviato la carenza di liquidità, ma con riflessi tutt’altro che preventivati e che alimentano ancora di più le congetture di chi pensa che l’Egitto stia in qualche modo cedendo la sua sovranità sostanziale all’Arabia Saudita.

A scanso di equivoci, qui non s’intende che Riyadh controlli i tre poteri dello Stato egiziano, bensì che l’influenza prolungata che l’Arabia Saudita ha sull’Egitto rischia di minare I’esercizio di quelle stesse funzioni da parte del Cairo.

Il passaggio delle isole all’Arabia Saudita potrebbe poi portare a delle modifiche al Trattato di pace del 1979 e aprire una nuova quanto difficilmente definibile fase nei rapporti tra la famiglia reale e Gerusalemme.

Lo Stretto di Tiran, infatti, diventerebbe per necessità un punto d’incontro degli interessi dei due paesi. Le speculazioni secondo cui queste isole potrebbero rappresentare un primo passo verso una normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Arabia Saudita andrebbero considerate per quello che sono, ma nulla andrebbe scartato in politica, specialmente se, com’è noto, l’Arabia Saudita deve far fronte alla crescita diplomatica dell’Iran.

Infine, l’ultimo aspetto è probabilmente quello più importante di questa faccenda: chi ha il diritto di prendere una decisione simile? Non si tratta di demonizzare a priori chi cede per denaro parte del proprio territorio, ma di rispettare le regole e le leggi.

L’art. 151 della Costituzione egiziana dice chiaramente che è il Parlamento – cioè la Camera dei Rappresentanti – l’organo autorizzato a valutare una proposta del genere ed è richiesto il parere del popolo attraverso lo strumento del referendum.

Inoltre, è il presidente della Repubblica l’unico ad avere il diritto di firmare trattati, non il primo ministro. Nessuna di queste indicazioni è stata rispettata e bisognerà attendere il parere della Suprema Corte Costituzionale egiziana prima di poter tracciare un bilancio.

Appare evidente, però, che l’assoluto disinteresse nei confronti dei cittadini egiziani, spesso privati anche dei più elementari diritti nonostante le leggi e la Costituzione li garantiscano, abbia reso ancor più problematica l’intera faccenda e abbia dimostrato quanto il popolo egiziano, il vero detentore della sovranità, sia stato ridotto ad una comparsa marginale più che ad un ruolo di protagonista.