Il fenomeno terrorista nel paese balcanico affonda le proprie radici nella guerra degli anni ’90, e nella presenza di gruppi che si pongono come alternativi alla comunità islamica ufficiale
di Andrea Oskar Rossini, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso
Quest’articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l’Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso
Il 18 novembre 2015, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi, Enes Omeragić, un giovane di Sarajevo, è entrato in una sala per scommesse nel quartiere periferico di Rajlovac e ha aperto il fuoco su due militari bosniaci, uccidendoli. Rintracciato poche ore dopo nella sua abitazione, Omeragić si è ucciso a sua volta, facendosi saltare in aria con una bomba a mano.
L’episodio non è stato praticamente registrato dai media europei, ancora sotto choc per i fatti di Parigi. Rappresenta tuttavia l’ennesimo attentato riconducibile al terrorismo islamista avvenuto nel paese balcanico a partire dal 2010.
Nel giugno di quell’anno venne fatta esplodere una bomba fuori dalla stazione di polizia di Bugojno, in Bosnia centrale. Un poliziotto, Tarik Ljubuškić, morì, e sei suoi colleghi rimasero feriti. L’anno dopo, a Sarajevo, Mevlid Jašarević aprì il fuoco con un kalashnikov contro l’Ambasciata degli Stati Uniti, ferendo un poliziotto. Infine l’anno scorso, il 27 aprile, Nerdin Ibrić ha assalito con un fucile automatico i militari della stazione di polizia di Zvornik, nella parte del paese a maggioranza serba, gridando “Allah Akbar” e uccidendo l’agente Dragan Đurić prima di venire ucciso a sua volta.
La tipologia degli attentati avvenuti in Bosnia Erzegovina è diversa dalle stragi perpetrate dall’Isis nelle grandi capitali europee. Ad essere colpiti sono obiettivi stranieri, oppure rappresentanti delle locali forze di sicurezza, militari o poliziotti. I civili non sono stati finora coinvolti, il che lascia presupporre una strategia diversa dei gruppi radicali nei Balcani.
Sporadicamente, singoli individui escono allo scoperto, ma il ruolo principale assegnato alla regione sembrerebbe essere quello di base logistica, ad esempio per il trasferimento di uomini o armi, e soprattutto di serbatoio di potenziali “foreign fighters”.
Secondo il professor Vlado Azinović, docente all’Università di Sarajevo e recentemente co-autore, con Muhamed Jusić, della ricerca “Il richiamo della guerra in Siria: il contingente bosniaco dei combattenti stranieri”, sarebbero circa 250 i bosniaci che hanno lasciato il paese per andare a combattere nel Medio Oriente, tra il 2012 e la fine del 2015.
Non si tratta di una cifra particolarmente rilevante in termini assoluti, se comparata ad esempio a quella dei “foreign fighters” provenienti dalla Francia, dal Belgio, dal Regno Unito o dalla Germania2. In termini relativi però, cioè riportati alla grandezza della popolazione (circa 3.800.000), non è un dato insignificante. La Bosnia Erzegovina, inoltre, ha alcune specificità, sotto il profilo del rischio terrorismo, che la distinguono dalla maggior parte degli altri paesi europei.
La prima è la frammentazione delle diverse forze e agenzie di sicurezza, nel contesto della complicata struttura istituzionale definita dagli accordi di Dayton. Uroš Pena, vice capo del Direttorato per il Coordinamento delle forze di polizia del paese, ha recentemente dichiarato ai media locali che “la condivisione delle informazioni è un grosso problema. Ogni agenzia si tiene strette le migliori informazioni di cui dispone. Tutti hanno l’obbligo di condividere le informazioni, ma questo non avviene… Non abbiamo neppure una chiara definizione delle giurisdizioni.”
Il secondo elemento di rischio, per la Bosnia Erzegovina, è la relativa facilità con cui, a vent’anni dalla fine della guerra, è ancora facile procurarsi armi. Quando sono stati firmati gli accordi di pace, molti hanno preferito conservare le armi, ad ogni buon conto. Queste armi possono ora finire nelle mani sbagliate nei modi più diversi, vendute sul mercato nero anche solo per aggiustare temporaneamente il bilancio familiare.
Il fatto invece che circa metà della popolazione della Bosnia Erzegovina sia di fede, cultura o tradizione musulmana, l’aspetto in genere più sottolineato dai media europei che si sono occupati in passato del fenomeno terrorista nel paese, non rappresenta di per sé un elemento di rischio. La comunità islamica locale (Islamska Zajdenica, IZ) ha sempre denunciato con forza il terrorismo e la violenza, invitando i propri fedeli a tenersi distanti dai gruppi radicali che cercano di sovvertire le regole su cui da secoli si fonda l’Islam in questa regione.
Questi gruppi, secondo il giornalista Esad Hećimović, autore di “Garibi – Mujaheddini in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1999”, hanno cominciato a manifestare la propria presenza nel paese a partire dal 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia. Alcune centinaia di combattenti3, provenienti da paesi arabi o dall’Afghanistan, si unirono alla brigata “El mujahid” dell’Armija BiH4, o a formazioni minori, combattendo dalla parte dei bosniaco musulmani.
I mujaheddin non portarono in Bosnia solo le proprie armi e volontà di combattere, ma anche un’interpretazione dell’Islam molto diversa da quella dei bosniaco musulmani. Dopo la guerra, l’influenza dei gruppi radicali continuò in modi diversi, attraverso il lavoro dei predicatori, l’assistenza finanziaria o la creazione di un sistema alternativo di welfare paragonabile, secondo il professor Azinović, a quello posto in essere da Hamas nei territori palestinesi.
Oggi, venti anni dopo la fine della guerra, è difficile valutarne la diffusione e influenza in Bosnia Erzegovina. Data la conformazione del paese, si tratta di una presenza localizzata soprattutto in villaggi isolati, in zone montuose o rurali, dove i gruppi che si pongono come alternativi alla comunità islamica ufficiale conducono una sorta di vita sociale e religiosa parallela.
Non tutti sono naturalmente legati alle reti del terrorismo internazionale, né tutti credono nell’uso della violenza per la lotta politica o religiosa. Si tratta di una galassia molto diversificata. Alcune delle figure più rappresentative erano ritenuti essere, in passato, Nusret Imamović, oggi probabilmente in Siria, e più recentemente Husein Bosnić (Bilal), condannato il 5 novembre scorso dalla giustizia bosniaca a 7 anni di reclusione per le attività di reclutamento di giovani da inviare nelle guerre del Medio Oriente.
La comunità islamica ufficiale della Bosnia Erzegovina rappresenta una sorta di “diga” contro la diffusione di questi gruppi, ed è proprio la IZ che ha recentemente fornito alcuni dati sulla presenza delle comunità ribelli, definite dai media locali come “paradžemate”, che sarebbero oggi 64.
La massima autorità dell’Islam in Bosnia Erzegovina, il reis ulema Husein Kavazović, si è in più occasioni scagliato duramente contro queste “para-comunità”, esortando le autorità a impedire loro di esercitare le proprie funzioni. Nei mesi scorsi, tuttavia, si è svolto un interessante confronto tra la IZ e le “paradžemate”, lontano dagli occhi indiscreti dei media.
La comunità islamica ufficiale rivendica unicamente per sé il diritto di scegliere le guide spirituali (imam), e in generale di educare i fedeli, e ha cercato di ricondurre le comunità ribelli all’interno della propria giurisdizione. Il difficile percorso però, secondo quanto reso noto dalla stessa Islamska Zajednica, non ha sortito grandi risultati e, al termine di settimane di colloqui, solo 14, delle 38 che hanno partecipato al processo, hanno accettato di (ri)entrare a far parte della comunità ufficiale.
1. Nel testo anche come “Bosnia”, “BiH”
2. V. le statistiche riportate da Radio Free Europe/Radio Liberty e cfr. anche Foreign Fighters: An Updated Assessment of the Flow of Foreign Fighters into Syria and Iraq, The Soufan Group, dicembre 2015
3. La metà degli effettivi della brigata “El mujahid”, forte di poco meno di 2.000 soldati, erano stranieri
4. Esercito della Bosnia Erzegovina