di Susanna Allegra Azzaro
Avete mai avuto la sensazione di guardare qualcuno negli occhi e di pensare che quel qualcuno sia lì nella materialità del corpo, ma che con la testa si trovi in un posto distante anni luce? Mi domando se è successo anche a voi di conoscere un uomo che ha toccato con mano l’atrocità della guerra e che poco dopo, in un bistrot rumoroso di Parigi, cerca di ritrovare il suo posto nel cosiddetto mondo normale.
A me sì, correva l’anno 2010 e in una piovosa notte parigina e in un momento non troppo felice della mia esistenza, incontravo finalmente per la prima volta Finbarr O’Reilly.
Per gli appassionati di fotogiornalismo Finbarr non ha di certo bisogno di presentazioni; già vincitore nel 2005 del prestigioso riconoscimento del World Press Photo, il fotografo irlandese-canadese per 14 anni ha contribuito, attraverso le sue foto, a testimoniare conflitti e cataclismi in Medio Oriente e soprattutto nella tanto amata Africa.
Di guerra e un po’ di sé mi ha parlato uno dei migliori fotogiornalisti dei nostri tempi che oggi si divide tra la sua Irlanda e New York, città dove proprio in questi giorni sta per realizzare il suo nuovo importante progetto.
Cosa ti ha spinto ad avvicinarti al fotogiornalismo?
In realtà è stato per caso. Ho cominciato a lavorare come giornalista d’arte e spettacolo per un giornale di Toronto, ma non è passato molto tempo prima che cominciassi a sentire l’esigenza di fare qualcosa di diverso nella mia vita. Volevo viaggiare, vedere il mondo e sentirmi utile, così quando ho letto che la Reuters stava cercando un corrispondente dalla Repubblica Democratica del Congo, ho mandato di getto il mio curriculum e qualche settimana dopo, l’ 11 settembre del 2001, ero su un aereo diretto a Kinshasa.
Una data cruciale per te, ma anche per il resto del mondo.
Sapevo che ci sarebbero state delle conseguenze importanti per me e il mio lavoro. Era chiaro fin da subito che da quel momento in poi l’Afghanistan e il Medio Oriente in generale sarebbero stati sotto le luci dei riflettori e che gli altri conflitti sarebbero passati in secondo piano. Di quello che succedeva all’epoca in Africa, era facile intuire, non sarebbe importato molto al resto del mondo.
Tra il 2001 e il 2008 hai coperto praticamente tutti i conflitti avvenuti nel continente africano, prima in veste di giornalista e poi di fotografo. Com’è avvenuto il passaggio dall’uso delle parole a quello delle immagini?
È avvenuto davvero per caso. A Kinshasa dividevo un appartamento con due fotografi professionisti e guardando i loro lavori mi sono reso conto di quanto potenti potessero essere le immagini, anche più delle parole stesse, nel descrivere la tragedia che stava avvenendo in quel momento nella Repubblica Democratica del Congo.
Siamo nel bel mezzo della cosiddetta Seconda Guerra del Congo, anche nota per esser stata la guerra africana con il numero più elevato di vittime in assoluto, all’incirca cinque milioni.
Ho cominciato a prendere in prestito le macchine fotografiche dei mie coinquilini, poi ho convinto la Reuters a comprane una per l’ufficio e da lì a breve oltre a scrivere i miei articoli, fotografavo tutto quello che vedevo sul campo. Nel giro di poco tempo le mie foto cominciarono a essere pubblicate sulle copertine di riviste di mezzo mondo tanto che la Reuters mi offrì un altro lavoro ma stavolta in veste di fotografo.
Che sembra essere la scelta giusta per Finbarr che nel 2005, solo quattro anni dopo aver preso in mano la sua prima macchina fotografica, vince il premio della World Press Photo con una toccante immagine che ritrae la mano di un bambino malnutrito che preme contro le labbra della madre impotente. Finbarr passa in Africa ben sette anni e documenta guerre e carestie, ma anche la vita di tutti i giorni finché, nel 2008, la Reuters lo vuole in Medio Oriente dove si stanno combattendo le guerre che occupano le prime pagine dei giornali. L’Afghanistan, la Libia e infine Gaza saranno decisivi per la vita di Finbarr.
Non ero molto entusiasta di andare in Medio Oriente a dire il vero. L’Africa ormai era diventata la mia casa e non mi sentivo particolarmente attratto da quel mondo, comunque sono partito per l’Afghanistan e lì ho seguito le perlustrazioni dei marines americani sul territorio.
E le cose fin dal suo arrivo in territorio afghano si mettono male. Il battaglione con cui viaggia Finbarr viene attaccato a più riprese, ci sono numerosi feriti tra gli americani e Finbarr contribuisce a soccorrerli e a metterli in salvo. Nelle foto scattate durante quei tragici momenti i corpi marines sono ombre circondate da sabbia e fumo, fantasmi disperati in cerca di una via di fuga, fantasmi che non lo abbandoneranno neanche una volta tornato alla sua vita normale. Decide di farsi aiutare da professionisti, comincia a studiare gli effetti del PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress) sul cervello umano, va ad Harvard per prendersi un master in psicologia e si incontra spesso con il sergente Thomas James Brennan, uno degli uomini che aveva contribuito a mettere in salvo durante l’imboscata, e con lui nasce l’idea di scrivere un libro su quell’esperienza che ha cambiato irrimediabilmente la vita di entrambi.
Sei ritornato alle parole dopo che averle abbandonate per le immagini.
Dopo l’Afghanistan e i bombardamenti a Gaza sono stato preso da un enorme senso di frustrazione. Pensavo che attraverso le mie foto avrei contribuito non solo a informare ma anche a cambiare le cose, e invece… E poi con gli smartphones oggi tutto è cambiato, chiunque può fare una foto decente e pubblicarla in tempo reale, il ruolo dei fotografi professionisti si è ridotto notevolmente, ora le immagini dal campo di battaglia ti arrivano direttamente da chi le vive in prima persona e siamo costantemente bombardati da così tante foto tanto da essere arrivati quasi a un punto di saturazione.
Ora sei impegnato alla stesura finale del tuo libro e vivi tra l’Europa e gli Stati Uniti, hai una vita intensa e tutto sommato molto “ordinaria”. Senti mai la mancanza della tua vecchia vita?
Quando ero piccolo mio nonno mi parlava della Seconda Guerra Mondiale e io ascoltavo meravigliato le sue storie, la guerra in fondo era un modo estremo di mettere alla prova la propria mascolinità e volevo anch’io un giorno dimostrare di non essere da meno finché la vivi in prima persona poi ti rendi conto di quanto sia assurda. Un giorno poi mi sono guardato indietro e ho pensato a tutte quelle le feste che non avevo trascorso con la mia famiglia, alle persone che avevo trascurato per anni, piano piano ho ridato il giusto senso alle cose e oggi non cambierei la mia vita “normale” con niente al mondo.
L’uscita del libro di Finbarr O’Reilly , pubblicato da Penguin, è prevista entro la fine dell’anno.
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