Ungheria: un anno dopo. In attesa del referendum di ottobre per il piano rifugiati
Il 2 ottobre 2016 è stato fissato dal governo ungherese un referendum per chiedere ai cittadini se accettano o meno un piano europeo di ripartizione dei profughi. Il reportage di Caterina Mazzilli, un anno dopo l’estate della Balkan Route, presenta il quadro del Paese.
di Caterina Mazzilli, da Budapest
In questi giorni, la stazione di Keleti, nel centro di Budapest, è tranquilla. Pendolari frettolosi, turisti e backpacker con lo zaino in spalla sfiorano, senza quasi notarli, alcuni senzatetto che chiedono l’elemosina vicino all’entrata principale e sulle gradinate che portano alla metropolitana.
La situazione è molto diversa da quella che i media internazionali avevano immortalato la scorsa estate, quando una folla di migranti e richiedenti asilo partiti da Siria, Iraq e Afghanistan, ma anche da Pakistan e Bangladesh, sgomitava nel tentativo di salire a bordo dei treni che li avrebbero potuti condurre in Germania, rifiutandosi di obbedire agli ordini della polizia ungherese che, invece, gli intimava di scendere.
Adesso, non solo la stazione è tornata al suo consueto via vai di persone, ma è anche piuttosto raro vedere migranti accampati nei sottopassaggi o nei parchi, che sono tornati ad essere luoghi in cui stazionano Rom e senzatetto, due dei gruppi più marginalizzati e vulnerabili in Ungheria.
Anche se migranti e richiedenti asilo sono difficili da notare per le strade, questo non significa che siano scomparsi. Anzi, la questione dell’accoglienza, al momento, è più spinosa che mai.
Il massiccio flusso di profughi che ha toccato l’Ungheria nell’estate 2015 e la progressiva chiusura delle rotta balcanica hanno infatti modificato profondamente l’assetto della capitale e del Paese.
A Budapest, i cambiamenti maggiori si possono osservare a Jòszefvàros, l’ottavo distretto, da sempre quello con la percentuale più alta di residenti Rom e da un paio d’anni oggetto di un piano di riqualificazione urbana voluto dal premier ungherese Orban, che gira attorno all’apertura della nuova linea delle metropolitana M4. Il quartiere è attualmente diviso tra una gentrificazione pianificata e dei cambiamenti endemici innescatisi dopo l’arrivo dell’ultima ondata di migranti.
I vecchi abitanti di Jòszefvàros, ad esempio, si stanno spostando verso i distretti limitrofi (come il più mondano distretto sette o il nove) o fuori dalla città, mentre gli appartamenti lasciati vuoti vengono gradualmente abitati da rifugiati.
Il contrasto tra piazza Rackozi ter, ripavimentata di recente e capolinea della metropolitana, e il viale Népszìnhàz utca, dove si concentrano le case di Rom e migranti o rifugiati, è lampante e i locali lo raccontano tutti più o meno allo stesso modo.
“Questa zona non è molto sicura” mi dice un signore ungherese che incontro. “Oltre ai Rom, in questo quartiere ci sono molti rifugiati che sono arrivati l’anno scorso. Non è sicuro per una ragazza andare in giro da sola qui”.
In realtà, nonostante questa immagine, il quartiere non è ghettizzato ed è abitato anche da alcuni studenti e giovani internazionali, come quelli che si ritrovano ad Aurora, centro sociale sede di organizzazioni e gruppi di attivismo politico tra cui Migszol, che si occupa di dimostrare solidarietà ai richiedenti asilo.
Ma se le tensioni a Jòszefvàros si erano pacate durante lo scorso autunno e inverno, da qualche settimana sono ricominciate alcune manifestazioni di intolleranza verso i rifugiati da parte degli ungheresi, proprio nella zona di piazza II. Janos Pal papa ter e lungo il viale Népszìnhàz.
La presenza più o meno evidente di richiedenti asilo e rifugiati in città va di pari passo non solo con le decisioni politiche del governo Orban, come quella di costruire un muro lungo il confine con la Serbia e la Croazia come deterrente, ma anche con le decisioni degli altri paesi lungo la rotta balcanica.
Dalla sua chiusura, l’8 marzo scorso, il flusso di migranti e richiedenti asilo che entrano nel territorio ungherese si è nuovamente ingrossato; dimostrando come una barriera di filo spinato sia insufficiente a tenere fuori chi vuole muoversi.
“Sai cos’è ironico?”, mi dice una volontaria di Migszol, associazione che si prodiga per aiutare migranti e richiedenti asilo, “che lo scorso settembre anche alcuni addetti ai lavoratori socialmente utili, che potevano essere detenuti o ungheresi che svolgevano i servizi sociali per ottenere il sussidio di disoccupazione, sono stati assegnati alla costruzione del muro.”
Per entrare nel Paese c’è anche una via legale, le due transit zone al confine sud, attraverso cui possono passare solo 30 persone al giorno, 15 per transit zone. Ma per un flusso di persone in movimento così cospicuo e costante come come quello che ha interessato i Balcani nell’ultimo anno, 30 persone al giorno sono una cifra insignificante.
Una soglia così bassa veniva giustificata dal fatto che l’Ungheria non era considerata parte del “corridoio sicuro” della Balkan route e solo i profughi a cui era stato impedito l’accesso ad essa (principalmente sulla base della nazionalità) cercavano di attraversare il territorio ungherese.
Anche se adesso le cose sono cambiate e la Balkan route è stata chiusa, l’Ungheria non ha permesso un aumento nel numero delle ammissioni legali giornaliere.
La linea del governo è che i profughi non sono un loro problema. “Orban ha sostenuto spesso che l’Ungheria deve già fare i conti con il problema dei Rom, che si trova a dover affrontare. E quindi non intende investire tempo e risorse in un problema non suo” continuano i ragazzi di Migszol.
Dal 1 giugno scorso, il governo ungherese ha tagliato i fondi del Contratto d’Integrazione, che prevedeva un sussidio per i rifugiati della durata massima di due anni (90.000 fiorini/287 euro circa per i primi sei mesi e via via decrescendo a partire dal settimo mese).
Una delle giustificazioni usate per cancellarlo è stata proprio la volontà di non favorire i rifugiati a discapito degli ungheresi.
Di recente inoltre, Orban ha dichiarato di voler chiudere tutti i campi profughi sul territorio ungherese entro 3 mesi. E che, se i muri costruiti lungo il confine con la Serbia e con la Croazia non saranno sufficienti, chiuderà anche il confine con la Romania.
Ma cosa succede a chi entra in Ungheria?
I membri di Migszol, che visitano spesso i campi come parte del loro lavoro di attivismo, descrivono la situazione: “I campi profughi ci sono, ovviamente. Sono Bicske, Vàmosszabadi, Balassagyarmat e Fòt. Questi sono aperti, i richiedenti asilo possono entrare e uscire. Poi ci sono i centri di detenzione per richiedenti asilo, che sono Békéscsaba e Nyìrbàtor. E infine ci sono i centri di detenzione per migranti: Nyìrbàtor, Kiskunhalas, Györ e il centro di detenzione dell’aeroporto. E poi c’è un nuovo campo che è stato aperto un mese fa a Körmend, al confine con l’Austria.”
La situazione all’interno dei campi è tesa e problematica e le notizie non riportano mai cambiamenti positivi. Sistemazioni pessime, sporche e anguste, cibo scarso e personale medico insufficiente.
Mancanza di informazione sulla procedura d’asilo o di interpreti. Inoltre, tutti i campi sono collocati lontano dalle città o da centri abitati, dove però richiedenti asilo si devono recare per seguire le varie fasi della procedura d’asilo. “Le notizie che arrivano dai campi sono tristemente noiose” si sfoga una volontaria “nel senso che non migliorano mai.”
L’isolamento dei campi, se da un lato ostacola lo svolgimento della procedura d’asilo entro i tempi prestabiliti, dall’altro risponde a una funzione precisa, quella di rendere i richiedenti asilo invisibili alla popolazione.
C’è una ragione per cui non si parla dei campi profughi, della situazione in cui versano e delle proteste che si scatenano, come quella del 1 giugno a Kiskunhalas.
Se se ne parlasse, gli ungheresi capirebbero che in Ungheria ci sono molti più richiedenti asilo di quello che pensano e che il piano del governo per tenerli fuori non sta funzionando.
D’altra parte, è sempre difficile stabilire il numero di migranti e richiedenti asilo sul territorio, perché la maggior parte di essi non si ferma nello stesso posto per più di qualche giorno ma è in constante movimento.
Negli scorsi mesi, su 3mila casi, solo 2 persone non sono state incriminate per aver attraversato illegalmente il confine.
“Cosa succede alle persone che non vengono riconosciute come rifugiati o vengono incriminati? Vengono espulsi?” chiedo.
“Dipende da dove arrivano. Non possono essere riportati in Serbia perché la Serbia non li accetta. Potrebbero essere riportati in Bulgaria però. Di solito, chi può paga un trafficante per farsi portare al di là del confine. Chi vuole passare, un modo lo trova quasi sempre. Al momento parliamo di 150/200 persone che attraversano il confine ogni giorno, vengono fermate e portate nei campi profughi. Chi invece non riesce ad attraversare il confine resta in Ungheria ma non sappiamo cosa gli succeda dopo.”
Quello che è certo è che l’Ungheria sta cercando in tutti i modi, con muri, filo spinato e transit zone limitatissime, di tenere fuori migranti e richiedenti asilo e di implementare le leggi in materia nel modo più restrittivo possibile.
L’estate scorsa, il sindaco di Ásotthalom (un paesino al confine con la Serbia) ha perfino fatto girare un video messaggio per dissuadere i migranti irregolari a oltrepassare il confine, che si concludeva con “L’Ungheria è una cattiva scelta. Ásotthalom è la peggiore.”