Un paese sfruttatto, una borghesa radicale
di Emanuele Giordana, dal suo blog Great Game
Scrivi Bangladesh e dici povertà, ingiustizia, sovrappopolazione (150 milioni su un territorio grande
la metà dell’Italia), alluvioni e inondazioni marine devastanti.
Dici Bangladesh e racconti una storia di risentimento sedimentato che diventa spesso violenza politica. Dici Bangladesh e pensi che la politica di quel Paese è iperpolarizzata da quasi trent’anni e modellata su due partiti e, soprattutto, da due leader ormai ottuagenarie ma saldamente al potere.
A turno: Sheikh Hasina dell’Awami League, un partito laico e nazionalista, e Khaleda Zia del Bangladesh Nationalist Party, organizzazzione nazionalista e conservatrice. Dici Bangladesh e vedi nella forza delle organizzazioni islamiste, a cominciare dalla Jamaat-e-Islami – formazione con status parlamentare – la capacità di raccogliere un consenso che nasce dalla frustrazione legata a un cambiamento che non si avvera e dove l’islam rappresenta una promessa di purezza e riscatto in una nazione che ha a lungo detenuto la palma del Paese più corrotto al mondo.
C’è tutto quel che ci vuole per preparare il terreno e il brodo di coltura dove far crescere la trasformazione del risentimento in odio e violenza. Dove è facile insomma reclutare e, per un pugno di rupie, armare mani assassine.
La strage del bar è un salto di qualità ma purtroppo non stupisce. La violenza politica è stata una costante in questo Paese e negli ultimi anni, benché il governo di Hasina si ostini a negarlo, il brand di Daesh ha fatto parlare di sé molte volte con assassini mirati individuali e addirittura una lista di proscrizione di blogger, attivisti, intellettuali e insegnanti laici da far fuori.
Raccontata così però sarebbe una storia a metà, di quelle che si liquidano in fretta perché il Paese è povero, sovrappopolato e per di più ingiusto e musulmano: abbastanza per derubricare il caso a vicenda di ordinaria povertà.
Ma il Bangladesh è anche il luogo delle responsabilità nascoste che ancora una volta rimandano le radici dell’ingiustizia sociale a scelte prima coloniali e poi industriali. Quel Paese inizia la sua Storia “indipendente” nel 1947 quando la follia britannica, sostenuta da quella della Muslim League del subcontinente indiano, divide il nascente Pakistan in due Stati che distano tra loro… 10 ore di volo.
Il Pakistan orientale, abitato da bengalesi musulmani, con l’aiuto dell’India, si stacca dal Pakistan nel 1971 con una guerra sanguinosa le cui ferite non si sono ancora cicatrizzate (sono stati giustiziati di recente molti capi della resistenza pro pachistana accusati di crimini contro l’umanità). Il Paese ha una solo vera ricchezza, la iuta, il cotone e una rinomata tradizione manufatturiera, che fanno di questo Paese un enorme cantiere tessile.
Ed è in Bangladesh che in tempi recenti sbarcano le multinazionali del tessile che hanno scelto la delocalizzazione in Paesi che lavorano in conto terzi: salari minimi, materia prima di buona qualità a prezzi bassi, scarsa capacità sindacale, governi col pugno duro quando si rivendica un diritto.
Ci sono un nome, un luogo e una data che raccontano bene questa storia: Rana Plaza a Dacca, il 24 aprile del 2013. Un edificio commerciale di otto piani, figlio di abusi speculativi locali, crolla a Savar, un sub-distretto della capitale.
Il bilancio è gravissimo e le operazioni di soccorso richiedono quasi un mese e si concludono il 13 maggio con un bilancio di oltre mille vittime e oltre duemila feriti, molti dei quali ormai menomati e inabili al lavoro. Quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile e anche il più letale cedimento strutturale accidentale della Storia contemporanea, scoperchia anche le responsabilità di marchi europei, americani, italiani.
Scoperchia il tema della sicurezza, dei diritti, dei risarcimenti che non arrivano. Farà aumentare il salario base ma lascerà anche intere famiglie sul lastrico. Eccolo un altro humus pieno di risentimento.
Nel Rana Plaza avevano i loro laboratori fabbrichette locali che lavoravano per grandi marchi internazionali. Loro a fare il lavoro sporco, gli altri a esibire t-shirt a basso prezzo con la griffe. Se non ci fossero state campagne internazionali di attenzione (in Italia la Ong “Abiti puliti”), se non si fosse mosso l’Ufficio internazionale del lavoro dell’Onu, la storia si sarebbe dimenticata in fretta. E, in queste ore, pochi la mettono in relazione alla strage di due giorni fa nella capitale. Eppure…
Eppure il Bangladesh è anche questo: la tragedia del Rana Plaza fa firmare a circa 160 compagnie il Fire and Building Safety, un primo passo per mettere in sicurezza strutture e forza lavoro che, nel tessile, conta circa 4 milioni di operai e operaie.
Ma, dalle colonne del britannico Guardian, Tansy Hoskins, autrice del saggio Stitched Up: The Anti-Capitalist Book of Fashion, avverte che nonostante vi sia un elevato numero di sindacati del settore, sono pochi i lavoratori che vi aderiscono, il che li lascia vulnerabili agli abusi in fabbriche poco sicure. Anche un sindacato importante come la National Garment Workers’ Federation deve affrontare grandi ostacoli perché per registrare un’organizzazione al Dipartimento del lavoro si deve nel contempo avere come soci un terzo della forza lavoro: insomma se vuoi registrati come attivo in una fabrica con 10mila lavoratori ne devi avere come soci almeno 3mila… ma in Bangladesh se ti iscrivi rischi – dopo le minacce – il licenziamento.
E una volta per strada, da vittima del mercato, è facile diventare il soldatino di qualche Califfo in cerca di nuovi sodali.