Il sistema bancario italiano è davvero prossimo al collasso? Una riflessione sulle cause delle nostre sofferenze bancarie e sulle tante asimmetrie europee
di Marco Missaglia
Cittadini e risparmiatori italiani faticano a capire quale sia lo stato di salute delle banche nazionali. Da un lato i molto allarmanti scenari dipinti sulle pagine della grande stampa finanziaria internazionale, The Economist e Financial Times in primis; dall’altro le spavalde rassicurazioni del capo del governo Renzi e quelle più misurate del ministro Padoan. I quali ultimi, comunque, stanno negoziando con la Commissione Europea la possibilità di utilizzare denaro publico per sostenere gli istituti di credito.
Chi dice la verità? Come stanno le cose?
A dirci come stanno veramente le cose sarà, a fine luglio, la Banca Centrale Europea, una volta che saranno portati a termine i cosiddetti “stress test”, in sostanza controlli particolarmente approfonditi sui conti e sulle operazioni di molti importanti istituti di credito. Intanto, però, qualcosa si può dire e cercare di capire.
In primo luogo, è vero che le “sofferenze” (crediti concessi in passato e divenuti almeno in parte inesigibili) delle banche italiane sono le più alte in Europa. Quattrini prestati e che in buona parte probabilmente non torneranno indietro. Per intendersi, per ogni 100 euro prestati dalle banche italiane circa 17-18 euro sono considerati sofferenze. In Portogallo la cifra equivalente e’ di 12 euro, in Spagna di 6 o 7, in Germania meno di 5.
Non bisogna tuttavia dimenticare che soltanto nel 2008 le sofferenze delle banche italiane erano molto minori – costituivano circa il 6% dei crediti totali. Si sono dunque triplicate in 7-8 anni, il che la dice lunga sugli effetti delle feroci politiche di austerità praticate in questo periodo: la caduta del PIL che ne è conseguita, le difficoltà di molte aziende e la chiusura di tante altre (quasi 2 milioni di imprese), la stagnazione dei salari nominali e la riduzione di quelli reali, eccetera, sono tutti elementi che hanno reso sempre più difficile per imprese e famiglie onorare i loro obblighi di restituzione verso le banche. Queste ultime pagano perciò il prezzo di una folle austerità (da loro stesse paradossalmente e miopicamente difesa, nella ideologica convinzione che essa avrebbe liberato risparmi, non più impiegati per sottoscrivere titoli pubblici, a loro beneficio).
Sul fatto che l’austerità italiana sia stata particolarmente dura non ci devono essere dubbi.
L’Italia è il solo paese tra quelli della moneta unica ad aver fatto registrare dal 2000 ad oggi, con la sola eccezione del 2009, un bilancio publico regolarmente in avanzo primario (entrate sistematicamente superiori alle uscite al netto delle spese per interessi sul debito pubblico) e, quando anche altri paesi ce l’hanno avuto, l’avanzo primario italiano in relazione al PIL è comunque sempre stato il più alto.
Né si deve dimenticare che all’indomani del grande crack finanziario del 2007-2008 molti governi si dissanguarono per ripianare le perdite delle loro banche: Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Belgio, e via dicendo. Anche qui, per capire l’ordine di grandezza: negli Usa e nel Regno Unito i salvataggi bancari sono costati un incremento del rapporto debito-PIL del 40%, cifre impressionanti.
Si deve qui mettere in luce una prima “stranezza”: da un lato, in seguito al crack del 2008, governi che si indebitano per salvare le loro banche, gran parte delle quali erano state causa del loro stesso male, essendosi per scelta impegnate in operazioni ad alto rischio (erogazione di mutui a favore di soggetti poco “bancabili”, acquisto di titoli derivati la cui garanzia avrebbe dovuto basarsi su quegli stessi mutui, ecc.); dall’altro, oggi, governi (quello italiano) per i quali e’ diventato molto più’ difficile, in seguito alle normative europee sulla cosiddetta “unione bancaria” entrate in vigore all’inizio del 2016, utilizzare fondi pubblici per salvare e ricapitalizzare banche che, per quanto certamente non immuni da colpe, vedono riflettersi nei loro bilanci le enormi difficolta’ di un quadro macroeconomico di profonda e perdurante crisi. Come dire: se nei guai ti ci ficchi da solo, ti salvo; se ci finisci per colpe non tue, salvati da solo.
Le stranezze non finiscono qui. Prima di illustrarle è forse opportuno ricordare che in Italia (ed anche in altri paesi) il “salvataggio” delle banche non è una scelta discrezionale, ma un obbligo costituzionale.
La nostra Carta, giustamente, prevede che i risparmi debbano essere salvaguardati. Una banca non e’ una fabbrica di scarpe, non la si può lasciar fallire perché quella è (ammesso che lo sia) la sanzione del mercato. Una banca custodisce in deposito i risparmi di una vita. Un liberista sfrenato potrebbe anche voler dire al risparmiatore gabbato “scemo tu, che li hai mesi in mano a degli incompetenti o a dei farabutti”, ma capite bene che qui la faccenda e’ assai più delicata.
Perché se a fallire sono banche del calibro di Monte dei Paschi o Unicredit (dico per dire), allora anche i risparmiatori che hanno affidato i loro averi ad altre banche, per esempio a quelle che nutrono importanti crediti verso le prime, si spaventano,cercano a loro volta di ritirare i loro depositi con ciò indebolendo le loro stesse banche, e così via. Si potrebbe cioè innescare il classico ed auto-alimentantesi meccanismo di panico bancario che non risparmierebbe nessuno: né le banche buone né quelle cattive, né i risparmiatori intelligenti né quelli scemi.
Insomma, le banche vanno salvate. Ma come? E’ proprio qui che emergono altre stranezze. Mentre Stati Uniti e Regno Unito, che non appartengono all’area euro, ricapitalizzarono le loro banche ricorrendo all’emissione di debito pubblico, i crediti delle banche tedesche e francesi nei confronti della Grecia sono stati ripagati utilizzando il “fondo salva-stati” (European Stability Mechanism, ESM), ovvero quattrini dei risparmiatori europei.
Cioè: i risparmiatori italiani, tra gli altri, ci misero del loro per evitare che le banche tedesche e francesi subissero perdite sui crediti concessi alla Grecia, ma adesso l’inflessibile Schäuble dice che il contrario non può avvenire. Non sia mai che i risparmiatori tedeschi debbano essere tosati per salvare le banche italiane. Onde evitarlo, l’inflessibile Schäuble architetta un duplice meccanismo e lo fa incorporare nella già citata normativa sull’unione bancaria.
Da un lato si esclude la mutua garanzia dei depositi fra banche dell’area euro – l’idea era che ciascuna banca dell’area contribuisse alla costituzione di un fondo comune di garanzia che di volta in volta si sarebbe potuto utilizzare per garantire i risparmiatori di questo o quel paese le cui banche fossero in crisi; dall’altro, le regole dell’unione bancaria rendono estremamente difficile e di ammontare limitato l’erogazione di aiuti di stato alle banche in crisi, ed in ogni caso ad essi si può ricorrere solo dopo che si sia fatto ricorso al cosiddetto bail-in.
Il senso della prima di queste due previsioni normative è ovvio: non si chieda al risparmiatore tedesco di pagare un premio assicurativo che serva poi a rimborsare quello italiano o spagnolo. La seconda previsione, quella sul bail-in, necessita forse di qualche chiarimento.
Per qualsiasi risparmiatore la miglior garanzia che i propri risparmi siano in buone mani è data dal capitale proprio della banca: affido i miei soldi a chi ne ha di suoi, in modo tale che alla bisogna io mi possa rifare su quel capitale proprio della banca. Ora, quando una banca subisce perdite sui crediti concessi (perché non le vengono restituiti), il capitale proprio viene corrispondentemente ridotto in bilancio; oppure, quando il valore di borsa delle azioni di una banca subisce una riduzione (come sta avvenendo in queste settimane post-Brexit alle banche italiane), il valore che il
mercato riconosce al capitale proprio di quella banca si abbassa nella stessa misura.
In entrambi i casi occorre appunto “ricapitalizzare” la banca in questione: qualcuno ci deve mettere risorse
per ricostituire la garanzia dei risparmiatori-depositanti. Chi? Lo Stato, in ottemperanza agli obblighi costituzionali di difesa del risparmio? No, la normativa sull’unione bancaria limita al massimo gli aiuti di Stato, impedisce di fatto che l’Italia (o chi per essa) possa oggi fare quel che nel 2008 fecero tanti altri paesi europei, di aere euro e non. Le risorse ce le devono mettere gli azionisti della stessa banca, i sottoscrittori di obbligazioni emesse dalla stessa banca e, al limite, gli stessi correntisti con una giacenza superiore ai 100 mila euro.
Ora, passi per gli azionisti, ma obbligazionisti e correntisti sono risparmiatori: che senso ha chiedere ai risparmiatori di ricostituire una garanzia di cui dovrebbero essere i beneficiari? Che senso ha chieder loro di pagare per errori altrui? Che “garanzia” mai e’ questa? Perche’ impedire, o fortemente limitare, l’aiuto di stato? Perché l’Italia non può fare quel che gli altri già fecero?
A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si indovina: non sara’ che qualcuno all’estero è interessato a comprarsi Monte dei Paschi o qualche altra banca italiana? Siamo, come è noto, un popolo di risparmiatori…sarebbe come comprarsi un calzaturificio in un paese di fanatici delle scarpe.
Poi, forse, gli stress test diranno che Monti dei Paschi è malconcia, e allora in quel caso sarà forse possibile ricorrere a qualche aiuto di stato. Vedremo, ma la situazione è questa. Siamo davvero un paese debole. Facciamo l’austerità più austera di tutti, non possiamo salvare banche che ne sono le vittime e i nostri risparmiatori, dopo avercene messi per salvare le banche tedesche, devono subire le perdite delle loro.
E così sia.