Quindici anni dai fatti di Genova e dalla sospensione dei diritti nel nostro Paese. Poche certezze, una domanda.
di Angelo Miotto e Christian Elia
Il mare, la scogliera, la tensostruttura, il dibattito al Genoa Social Forum. Ricco e appassionante, partecipato e tremendamente profetico. Le madres dall’Argentina, la lotta contro il debito, il cambio climatico, Bové dalla Francia, forse c’era una mucca, il ricordo inganna, il caldo, un adorabile appartamento con tante stanze e un pianoforte in camera, nella zona rossa, la fortezza costruita sotto il naso a colpi di trapani e martelli, la gabbia per tenere, dentro, le belve. Quelle in cravatta.
Torna luglio e torna Genova. L’ultima volta pochi giorni fa passeggiando nel Porto antico sono tornati i fantasmi, salendo fino a palazzo Ducale il film di scontri e violenze, i cubetti di porfido e quell’operaio che li strofinava uno a uno perché arrivavano gli ‘otto grandi maiali’, come li chiamavano sui cartelli i contestatori.
Carlo Giuliani assassinato, la scuola Diaz, le botte nei cortei, le violenze a Bolzaneto, la sospensione dei diritti democratici, la tortura. Ogni volta che si sgrana questo rosario, negli ultimi tempi, c’è quel quindicenne che si incontra per le strade, nato mentre qui, nel suo, nel nostro Paese, si consumava una ferita che per alcune generazioni non si è chiusa mai del tutto.
Il quindicenne lo sa? Ne dubitiamo.
È successo tutto quando sei nato, oggi cosa puoi sapere? I processi lunghi, ingiusti, fuorviati dalle istituzioni stesse. La politica che non ha voluto fare luce fino in fondo, anzi. La politica che scappò quel 20 luglio per paura, lasciando sole decine di migliaia di persone. Il grande partito della sinistra che scappa, il grande sindacato che scappa e un ringraziamento ancora una volta alla Fiom e alla sinistra che rimase, ai parlamentari che si misero in prima fila per chiedere.
Ne abbiamo scritto, tanto e qui mettiamo i link per chi ha quindici anni e vuole informarsi.
Le certezze.
Siamo più vecchi di 15 anni, abbiamo capito bene cosa è successo, abbiamo visto come le profezie del Genoa Social Forum, inascoltato, si siano avverate su scala planetaria.
I processi non servono a fare giustizia; altra certezza che già avevamo imparato sulla storia martoriata delle violenze di stato. Ma fa sempre male, come la prima volta.
I movimenti sono stati piegati, a pistolettate e manganelli, non hanno retto l’urto. È un’altra triste e dolorosa certezza. Le forze di sicurezza non vanno chiamate ‘forze dell’ordine’, altra certezza.
Le madri dei morti ammazzati dallo stato sono quasi sempre delle bellissime persone e questa cosa non la capiremo mai, come si possa essere così distrutti e però propositivi. Forse perché la violenza subita è tale da invocarne l’assenza.
La domanda.
È semplice: cosa abbiamo intenzione di fare?
Commemoriamo le 17 e 27 in Alimonda, la Diaz, Bolzaneto, ricordiamo i pestati e gli umiliati, non dimenticheremo mai nulla di tutto questo.
Però cosa abbiamo intenzione di fare?
Le profezie della Cassandra genovese del 2001 erano esatte, l’analisi precisa.
Cosa intendiamo fare?
Dove troveremo ancora gli spazi per dire che un altro mondo è possibile, come il Brasile a pezzi e il Latinoamerica che sta perdendo, ha perso, la spinta di una nuova primavera, mentre l’Europa va allo sbando, gli Usa sono in balia di una candidatura comunque infausta, il razzismo la xenofobia sembrano prendere il sopravvento, le derive psichiatriche e gli stimoli criminali furoreggiano.
Il mondo del movimento è sopravvissuto e ha gemmato, non siamo ingenerosi, non possiamo negare le mille e mille pratiche piccole o più strutturate che sono oggi vive e forti, ma che non trovano un collante per fare massa. Una voce.
Allora 15 anni dopo ci resta 1 domanda che rivolgiamo a chi legge e a noi che scriviamo.
Pensateci. Pensiamoci. Con Genova nel cuore.
Ps. 19 luglio 2016, citiamo un post su facebook di Luigi Manconi, che condividiamo e che ringraziamo.
Come prevedibile, un Senato inqualificabile e infingardo ha preso una decisione inqualificabile e infingarda: ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nel nostro ordinamento dal 1988. Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando. Non poteva essere che così. A questo esito, hanno alacremente lavorato un ineffabile ministro dell’Interno che tenta di riscattare i propri fallimenti politici e di governo attraverso una successione di blandizie non nei confronti delle forze di polizia, bensì dei suoi segmenti più antidemocratici e arretrati. E, poi, i giureconsulti della domenica (ma dell’ora della pennica, mi raccomando) i garantisti ca pummarola ‘n copp’ e i tutori dei diritti purché di appannaggio dei soli potenti. Per motivare tutto ciò, alcuni senatori hanno argomentato, si fa per dire, sull’attentato di Nizza, collegandolo al rischio – nel caso di approvazione della legge sulla tortura – di “disarmare” polizia e carabinieri davanti alla minaccia jihadista. Che Dio li perdoni. Inutile cercare una logica in tutto ciò. C’è solo sudditanza psicologica e spirito gregario. Sotto il profilo normativo, tutto ciò significa una cosa sola: il delitto di tortura entrerà a far parte del nostro ordinamento, a voler essere ottimisti, tra due – tre – trent’anni anni.