Un libro di Raoul Pantaleo
di Sara Marchesi
Scrivere di architettura non è cosa facile. Il linguaggio architettonico – come del resto la pratica stessa – presenta la peculiarità e la conseguente difficoltà di situarsi in una posizione intermedia tra dimensione tecnica e realtà umanistica.
Nelle facoltà di architettura, da subito viene insegnata agli studenti l’importanza dell’utilizzo della “corretta” terminologia, il che, se da una parte certamente professionalizza e rende la comunicazione tra progettista e progettista e tra progettista, committente e specialisti vari più semplice e precisa, dall’altra determina un sostanziale allontanamento del vocabolario dell’architetto dal linguaggio comune, cosicché si diventa in definitiva incomprensibili ai più e si viene spesso accusati – a volte a torto, a volte a ragione – di eccessivo tecnicismo.
Dunque, se è indubbio che un rigore terminologico è realmente fondamentale nella disciplina architettonica come lo è nella medicina, nella scienza, ma anche nella filosofia (non si chiederebbe mai a due medici che stanno discutendo una diagnosi di non utilizzare un linguaggio “tecnico”, piuttosto si chiederà loro di essere in grado di tradurre in seguito il risultato della discussione in termini più comprensibili al paziente), è pur vero che l’ambiguità e la complessità linguistiche vengono spesso utilizzate da progettisti, sponsor e amministrazioni per confondere e mascherare interventi architettonici e urbanistici poco trasparenti, andando così ad ampliare ulteriormente la spaccatura tra l’intervento stesso e le persone che in un modo o nell’altro si troveranno a “viverlo” nel loro quotidiano.
Formulando quella che a mio parere rimane una delle più efficaci e poetiche definizioni di architettura, Adolf Loos ha scritto: “Se in un bosco troviamo un tumulo lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dentro di noi dice: qui è sepolto un uomo. Questa è architettura.”[1]
Il messaggio essenziale che possiamo ricavare da tale definizione è che l’architettura nella sua essenza ha che fare con la vita (e con la morte), riguarda ed è cosa dell’uomo; essa lo accompagna in tutto l’arco della sua esistenza in un rapporto che potrebbe essere definito di primordiale co-esistenza in un regime di comunicazione diretta, insieme legandolo indissolubilmente al luogo in cui si trova. Quando però si distacca dalla vita, e se smette di comunicare messaggi comprensibili, l’architettura diventa forse il più pericoloso e potente strumento di speculazione, oppressione e sottomissione.
Date queste premesse, la scelta di Raul Pantaleo di intitolare il primo capitolo del suo ultimo libro (La sporca bellezza, Elèuthera, Milano 2016, 127 pagine, 13 euro) “La bellitudine” acquista un significato fondamentale che ne giustifica l’apparente cacofonia. “[…]l’architettura la vediamo, la percorriamo, la respiriamo, la viviamo e spesso la subiamo”, scrive. Se quello che sta accadendo in maniera generalizzata nelle metropoli di tutto il mondo – seppur con diverse specifiche a seconda dei contesti geografici, economici, ma anche politici – è la perdita del volto umano dell’architettura, la quale diviene semplice simbolo totemico del potere delle multinazionali o vuota espressione dell’estro dell’Archistar di turno, e se è comprovato essersi diffuso un (giustificato) scetticismo quando non una vera e propria ostilità nei confronti suoi e del suo linguaggio, allora la scelta di “sporcare” il vocabolario architettonico diviene una presa di posizione politica che ha lo scopo di ripristinare un legame diretto tra questa pratica e la vita, tornando a parlare di architettura come “gesto di cura e amore”.
Nel lavorare alla costruzione, all’ampliamento o alla ristrutturazione di ospedali in zone di guerra, Pantaleo, da architetto, si trova a confrontarsi e ad affrontare la reale e radicale materializzazione di quell’ambiguità di cui parlavamo poc’anzi, la peculiarità della disciplina architettonica di fondere insieme scienza ed esistenza quotidiana. Il progetto di un ospedale – è evidente – richiede tutta una serie di specifiche tecniche che renda possibile efficienza, igiene e protezione, ma al contempo, osserva Pantaleo, “non sempre la funzionalità e la razionalità rispondono alle vere esigenze delle persone […] Anche l’architettura, soprattutto quella buona, può curare le cicatrici di un conflitto, sa dare forza e desiderio al domani. È vittima in guerra quanto protagonista nel dopoguerra […] parla di futuro, della voglia di vivere, della semplice banalità del costruire”. L’idea di bellitudine parla di una bellezza che ben poco ha a che fare con l’asetticità ipermodernista delle nostre architetture metropolitane, ma “è forse una bellezza più sana, più serena”. Nel testo, il concetto di “bellitudine” si accompagna ad aggettivi come “essenziale”, “solido”, “efficace” che si oppongono ad altri come “superfluo”, “approssimativo”, “squallido”, ma troviamo anche termini come “sobrio” e “generoso” in opposizione a “egoista”, “volgare”, “aggressivo”, aggettivi dalla connotazione inequivocabilmente umana. E non è un caso che, nel presentare i suoi progetti, Pantaleo ci parli anche di persone – l’illustratore Didier, il falegname Mohammed, l’impresario Ousman, la regista Mira Nair – che ne sono state e sono tuttora parte integrante in virtù del loro contributo pratico o simbolico. Raccontando la genesi, le condizioni e le esperienze personali che hanno fatto da sfondo ai suoi progetti in Afghanistan, ex-Jugoslavia, Italia, Iraq e in diverse parti dell’Africa, Pantaleo ha cercato di farci avvicinare a questi interventi facendoceli osservare dal punto di vista dell’uomo più che del progettista, pur mantenendo attivo il taglio di osservazione e l’attenzione ai dettagli che anni di pratica architettonica sono in grado di conferire e dai quali nessun architetto può prescindere.
Ciò che emerge da questo libro è che alla base delle architetture di Raul ci sono concetti, non concept; questo significa che talvolta queste possono mutare di significato o di ruolo con il mutare delle condizioni di contorno (come nel caso dell’ampliamento dell’ospedale di Bangui, Centrafrica, costruito sulla scia del desiderio di apertura e di una fiducia nella pace che purtroppo è stata disattesa) e che il loro futuro sarà sempre indissolubilmente legato a quello delle comunità per le quali sono state costruite.
[1] A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1992
La sporca bellezza, Elèuthera, Milano 2016, 127 pagine, 13 euro