di Michela Murgia, da Istanbul
Pubblicato a puntate sul suo profilo facebook, riprendiamo il racconto da Istanbul di Michela Murgia, che ringraziamo di cuore
Pages è una piccola libreria nel quartiere di Fatih e non è stato facile trovarla, rintanata com’è in un vicolo cieco alla fine di una strada così stretta che nemmeno gli spericolati tassisti di Istanbul ci vogliono entrare. Può sembrare anti-economico mettersi a vendere libri dove per arrivare devi andarci apposta, ma chi bussa alla porta di Pages non sta cercando banalmente libri: questo luogo curatissimo è prima di tutto un ritrovo per i rifugiati siriani.
Di libri ce ne sono molti e alcuni sono editi da loro medesimi – Pages è anche un piccolo marchio editoriale – ma hanno un pubblico preciso: sono in arabo, la lingua parlata dal 90% dei siriani, e siriani sono i proprietari, i dipendenti, i musicisti che suonano il liuto al primo piano e le persone, adulti e bambini con una loro sezione dedicata, che nel tardo pomeriggio cominciano a radunarsi qui per stare insieme. La libreria ha un bancone bar con una piccola scelta di bibite fresche che ciascuno si serve da sé in un ambiente familiare, e c’è persino un minuscolo esterno alberato dove ogni tanto, dal pollaio della casa vicina, una gallina salta dentro facendo ridere i più piccoli.
È sotto quegli alberi che ho conosciuto Sarah, ventiquattro anni, il sorriso facile e due vivacissimi occhi color caffè. Vive qui da otto mesi e nel tavolino accanto al mio sta insegnando (in inglese) la grammatica araba a un uomo di nome Frank, un francese trapiantato a Istanbul da qualche mese per amore di una ragazza turca; lui in cambio le offre incredibilmente lezioni di italiano.
“Non meravigliarti: quando potrò andare via da qui voglio venire nel tuo paese, amo l’Italia”. Sarah lo dice con la sicurezza di chi sa di cosa parla, ma in Italia in realtà non c’è mai stata: ha visto solo i film e conosce le canzoni degli anni ’70, che per desiderarla le bastano. La sua famiglia è stata smembrata dalla guerra: originaria di Laodicea, ora ha un fratello rifugiato in Svezia, una sorella in Germania e lei è qui con la madre, con cui condivide un piccolo appartamento in attesa che le acque si calmino. Di restare a Istanbul non se ne parla nemmeno. “I siriani non sono benvenuti qui, Erdogan ci usa solo come moneta di scambio per entrare nell’Unione Europea.”
Lo penso anche io e immagino lo sappiano anche i quasi tre milioni di suoi connazionali distribuiti per tutta la Turchia, un milione dei quali vive nella sola Istanbul. Le chiedo cosa pensa del colpo di stato mancato, se crede che ora per loro la situazione sarà diversa, e sia lei che Frank sono concordi nel dirmi che, per un rifugiato, qualunque sommovimento politico è un disastro. “Erdogan non mi piace, ma sono felice che il golpe militare sia fallito: un regime di soldati non so cosa avrebbe potuto portare a noi esuli”.
Sarah non è l’unica a essere sollevata. Per le strade di Istanbul c’è aria di festa dal giorno dello sventato colpo di stato e tutte le sere ci sono caroselli di auto, di bandiere, di musica e balli, di slogan gridati fino a tarda notte. Nelle auto che suonano i clacson sul ponte Galata ci sono giovani, donne e persino bambini e per le strade vedi studenti con la maglietta della Turchia che improvvisano cori e piccole parate spontanee di bandiere.
I giornali italiani hanno scritto che a fare festa è “il popolo di Erdogan”, come se queste migliaia di persone fossero fanatici e prezzolati che sostengono il presidente per partito preso. È una visione che va incontro ai sentimenti occidentali di antipatia per Erdogan, ma che impedisce di capire che a Istanbul le persone – al di là delle differenze politiche – sono sinceramente contente che i militari dissidenti non siano riusciti nel loro scopo. Oltre all’onnipresente bandiera turca, “Hakimiyet Milletindir” è la scritta che campeggia su ogni manifesto, ogni palazzo, ogni striscione esposto sui luoghi pubblici e privati; il messaggio per i turchi è chiaro: la sovranità appartiene alla nazione.
Erdogan ha ottenuto l’impensabile da questo golpe: sulla base del comune desiderio di mantenere il paese democratico, anche gli oppositori politici e i cittadini dissidenti verso le sue politiche si sono schierati a difesa del governo eletto, il suo governo, e l’assenza di opposizione verso le sue azioni successive non è solo frutto della paura dell’epurazione; opporsi a Erdogan adesso, in un momento in cui è così smaccato il sostegno popolare per lui, vorrebbe dire aprirsi alla possibilità di una guerra civile che qui non vuole nessuno. Non è un caso se i partiti di opposizione non hanno dato il minimo sostegno al golpe, emettendo subito comunicati in cui lo condannavano.
Inevitabilmente con quegli stessi comunicati hanno rilegittimato il governo eletto, quello di Erdogan, quello contro cui si battono ogni giorno. Di più non si poteva scrivere (il nome di Erdogan non c’è), ma di meno neppure e in quelle poche righe c’è forse la spiegazione più sintetica di quello che sta accadendo in questi giorni in Turchia.
Per esempio del perché, mentre i giornali occidentali riportano le notizie delle conseguenze del golpe descrivendole come una repressione fuori dallo stato di diritto, a Istanbul sono in pochi a pensare che Erdogan sulla questione golpe stia agendo in modo non legittimo. La questione dei giusti processi ai militari golpisti e dei diritti umani dei civili presunti gülenisti non è considerata primaria dall’opinione pubblica e la ragione è ovvia: questa è una nazione che ha visto già tre colpi di stato (riusciti) dal 1960 a oggi e l’atto di tradimento del voto che i turchi hanno rischiato ancora una volta di subire è considerato degno di ogni ritorsione.
A preoccupare le persone politicamente ostili a Erdogan è piuttosto l’escalation di potere sulle altre questioni, in particolare la sua mai nascosta aspirazione a riformare la costituzione per fare della Turchia una repubblica presidenziale; gli oppositori questa prospettiva si preparano a contrastarla democraticamente.
I giornali italiani sembrano invece molto più preoccupati della pretesa islamizzazione in atto sotto il governo Erdogan. Ho letto articoli che descrivevano scenari di progressiva fanatizzazione della religione islamica e la presentazione di Istanbul come una città invasa da “uomini barbuti e donne velate” (cit.). Il quartiere di Beyoglu è una buona cartina di tornasole del contrario, sebbene non sia l’unica in una città che di centri urbani ne conta sette, tanti quanti sono i colli su cui è costruita.
Beyoglu però è uno dei punti più politicamente caldi della città, quello in cui la grande via Istiklal sfocia in quella piazza Taksim dove tre anni fa Erdogan mandò l’esercito contro i manifestanti pacifici che lo contestavano, facendo nove morti e migliaia di feriti. I giornali italiani hanno scritto che il quartiere è deserto e che le donne dopo le diciannove hanno paura ad andarci senza il velo, ma a smentire questa descrizione cupa basta una comune passeggiata non dopo le diciannove, ma anche dopo le ventidue, dove nei locali e nei vicoli c’è una vita paragonabile a quella di Trastevere il venerdì sera e dove le donne camminano per le vie fino a tarda notte vestite esattamente come a loro garba, cioè tutte diverse.
Alcune sono totalmente occidentalizzate, alcune indossano un velo che copre il volto e molte sono velate solo parzialmente, come si annodava il fazzoletto mia nonna. Camminano con i compagni e i figli, ma anche sole o in compagnia di altre ragazze, spesso con la compresenza di abbigliamenti differenti nello stesso gruppo.
Solo l’approssimazione che spesso connota lo sguardo occidentale verso il medio oriente può indurre a scambiare il velo con una mancata emancipazione. In Turchia le leggi che consentono alle donne di indossare quello che vogliono ci sono e nessuno le ha toccate: l’unica cosa che ha fatto Erdogan in merito è stato togliere la norma che obbligava le donne a non portare il velo negli uffici pubblici e nelle università, norma invero discutibile: mia nonna per esempio si sarebbe certamente rifiutata di rispettarla, perché nessuna può essere indotta contro la sua volontà ad adeguarsi ai parametri di un’emancipazione di stato, che della morale di stato è l’altra faccia.
Alcuni giornali e siti italiani, per provare che la presunta islamizzazione erdoganiana sta mettendo a rischio la libertà femminile, hanno scritto che in Turchia con Erdogan la legge sull’aborto è in pericolo, a causa del fatto che una parte dell’opinione pubblica lo considera un omicidio e il numero delle obiezioni di coscienza è talmente alto da renderla quasi inapplicabile.
Cambiate la parola Turchia con la parola Italia e avrete lo stesso risultato, ma certo nessuno da noi si sognerebbe di definire “cristianizzazione” l’identico residuo di mentalità patriarcale che ancora sopravvive in tutte le società laicizzate. Pretendere di supporre “l’islamizzazione” della Turchia da dati come questi è quantomeno forzato, oltre che un po’ islamofobo. Se niente sembra semplice in Turchia è perché non lo è, anche se spesso le nostre categorie culturali tendono a semplificare la complessità altrui per farla entrare dentro alla nostra cornice. Lo capisco, ma il risultato è quello di falsarla e diffonderne una percezione distorta.
Gürsel Bulut non ha neanche cinquant’anni, ma nell’antica fumeria di narghilè di Istanbul in cui ci siamo dati appuntamento lo salutano a decine con la reverenza che si offre a un anziano stimato. Il luogo in cui sono stata invitata si chiama Erenler, ha più di 400 anni ed è costruito accanto a un antico cimitero nel quartiere di Fatih; aperto 24 ore, ha una fornace che, così mi dice il mio anfitrione Çağatay Özdemir, dal sedicesimo secolo non è mai stata spenta e tra le sue mura le donne sono benvenute, a differenza dell’alcool.
In compenso tutti fumano le pipe ad acqua che saturano l’ambiente con vapori profumati di mela. Ci sediamo in una piccola stanza già occupata in parte da quattro uomini; è affrescata con antichi motivi grafici ispirati alla mistica sufi e mentre li ammiro arriva un inserviente con un narghilè e tre bocchini monouso, insieme ai bicchierini di tè che qui a Istanbul non mancano su alcun tavolo.
Il clima è sereno e tutti chiacchierano piacevolmente: sembra impossibile che meno di una settimana fa per la strada su cui si affaccia la fumeria ci fossero i carri armati, centinaia di militari con i mitra spianati e in atto il golpe fallito più veloce della storia della Turchia.
Gürsel è un mercante di artigianato orientale e gira tutto il mondo per trovare gli oggetti del suo commercio e partecipare alle fiere internazionali in cui incontra i migliori acquirenti. “Sono stato anche a Cagliari, bellissima città, avete artigiani meravigliosi!” Viene da una famiglia originaria dell’Azerbaigian e nel parlare con me alterna italiano e inglese, una poliglossia non rara a Istanbul, metropoli dove confluiscono popolazioni da ogni dove. “Non credere mai a chi si vanta di essere originario di Istanbul” – mi dice col bocchino per traverso tra le labbra – “nessuno che viva qui lo è, a meno che non sia in grado di risalire per sette generazioni fino agli ottomani”.
Sono felice di incontrare Gürsel perché quelli come lui, i miti seguaci della mistica sufi dediti allo studio dei testi antichi e all’attività benefica, mi sembrano la cosa più lontana dal fanatico fondamentalista islamico, forse gli interlocutori ideali per cercare di capire la Turchia del dopo golpe. Se però mi aspettavo un pensatore dissenziente, Gürsel mi spiazza subito: “Non mi sono mai considerato un sostenitore di Erdogan, ma un golpe militare eterodiretto da un fanatico predicatore sponsorizzato dagli Stati Uniti come Fethullah Gülen è l’ultima cosa che serve alla Turchia in questo momento. Il mio paese deve cambiare democraticamente e per sua scelta, non forzato dai mitra armati da uno che si considera il nuovo Messia”.
Gürsel è un uomo complesso: non è solo un mistico sufi, ma anche è il responsabile della fondazione Dokuz Önü, un’organizzazione di aiuto umanitario che dichiara di non avere scopi politici né di proselitismo e che opera negli strati sociali turchi più poveri, dove peggiore è la condizione delle donne maltrattate, degli orfani e degli anziani ammalati. Conosce bene la Turchia più ferita e le cose che mi spiega smentiscono ancora una volta quello che assumo dai media europei.
“La parte di esercito che ha organizzato il golpe con l’aiuto degli americani non è composta dai difensori dello stato laico di Ataturk, ma da seguaci dell’ideologia religiosa di Gülen, Hizmet, che qui ha più di quattro milioni di adepti, decine di scuole a pagamento controllate da lui e interessi affaristici miliardari. Per capire cosa è Gülen non devi immaginare un vecchio esule moderato, ma il capo di una setta, un tycoon, un grande vecchio pieno di soldi e di progetti per la Turchia, naturalmente i suoi.”
Sui licenziamenti degli insegnanti è pacato, ma altrettanto chiaro: “Tu quando leggi la parola insegnante pensi che stiano mandando per strada dei poveri maestri di lettere e di matematica, invece quei dodicimila licenziamenti riguardano persone che insegnano nelle scuole di Gülen e che fanno parte di una rete sovversiva. Devi immaginarti una specie di Opus Dei con i suoi campus costosi privati, luoghi da dove per anni è uscita una classe dirigente ideologicamente conforme al proprio credo, uomini e donne potenti, ricchi e istruiti, posizionati nei luoghi chiave della società turca allo scopo di destabilizzarla e prendersela. Dopo un attentato voi lascereste aperte le scuole coraniche dove imam fondamentalisti formassero i terroristi per conto dello stato islamico? E i fiancheggiatori delle BR li avreste lasciati liberi nelle loro case, o non siete forse andati a stanarli uno per uno finché non avete debellato tutta l’organizzazione terroristica degli anni 70?”
Provo a spiegargli che Fethullah Gülen in Europa è considerato un moderato e che circolano sue foto amichevoli persino con Giovanni Paolo II. La cosa lo fa ridere. “Ci sono foto di Giovanni Paolo II anche con Pinochet, ma non credo che per questo abbiate considerato quel macellaio un moderato.
Fethullah Gülen è un fanatico religioso contrario allo stato laico di Ataturk, amato dagli Stati Uniti e da quel papa anche perché a suo tempo fondò l’Associazione per la Lotta contro il Comunismo, ma non illuderti: è convinto che la fede sia una questione di stato. È un teocrate, basterebbe leggersi uno qualunque dei suoi libri. Erdogan non è un santo e certamente adesso i suoi nemici politici avranno vita più dura, ma questo non diventerà mai uno stato islamico per sua mano. Perché dovrebbe sottomettere il potere politico a quello religioso?”
Cerco di capire perché lui, che è un uomo di religione, non si fida di Gülen, che in fondo è un imam. “Un imam non è niente. Gli imam in Turchia non sono capi religiosi, ma dipendenti dello stato, funzionari nominati dal governo: non sono come i vostri preti, non hanno autorità personale.
È così da Ataturk, che era uno statista vero. A differenza di come avviene in Francia, non voleva che la religione fosse espulsa dalle istituzioni, perché altrimenti si sarebbe organizzata contro le istituzioni, come è avvenuto in molti paesi a maggioranza musulmana. Per questo istituì il Direttorato di Stato per gli affari religiosi: tutti gli imam che predicano nelle moschee di Turchia sono nominati da quell’istituzione. Per un certo periodo Gülen l’ha persino diretta, ma poi Erdogan si è accorto che aveva usato il suo potere per costruire una sorta di stato parallelo. Ecco perché gli adepti di Hizmet oggi sono una rete diffusa ovunque nei mezzi di informazione e nelle istituzioni. Le epurazioni che stai vedendo riguardano loro, non generici dissenzienti dalla politica di Erdogan.”
Non gli nascondo che visto dall’Europa questo dopo golpe sembra il prodromo di una dittatura e che i paragoni con Hitler e il suo iniziale consenso popolare si sprecano. “L’Europa è sempre pronta a indicare i pericoli antidemocratici fuori da sé, ma mai al suo interno. Dopo l’attentato di Parigi Hollande ha sospeso gli accordi di Schengen sulla libera circolazione e ha dichiarato lo stato di emergenza, che congela diversi diritti civili. Adesso, dopo i fatti di Nizza, lo ha prolungato, ma nessuno in Europa pensa che Hollande sia un dittatore.
Qui c’è un colpo di stato, la nostra nazione è in pericolo, ma se Erdogan fa la stessa cosa di Hollande è subito dittatura. C’è un problema di trave e di pagliuzza, non è così che dice Cristo?”
I quattro uomini che sono nella stanza con noi lo ascoltano con attenzione. Çağatay Özdemir, il giovane sufi che ci ha portati qui, traduce loro cosa ci stiamo dicendo e di quando in quando qualcuno annuisce. Manifesto a Gürsel la preoccupazione che Erdogan possa usare questo particolare momento di crisi nazionale per rendere permanente lo stato di emergenza e servirsi della religione come forma di controllo sociale. Prima di rispondere prende tempo, quello che occorre per una lunga boccata di fumo dal narghilé.
“È un rischio, non te lo nego, ma la Turchia ha i suoi anticorpi. Guarda le manifestazioni di strada, guarda le auto piene di famiglie, di giovani donne con i capelli sciolti, di anziani e di studenti: credi siano tutti stupidi? Pensi inneggerebbero al golpe scampato se davvero la prospettiva fosse il fondamentalismo? Siamo uno stato laico da troppo tempo, farci tornare indietro non sarebbe così facile.”
E la pena di morte minacciata? “Non è credibile, è un espediente populista e Erdogan è il re dei populisti. Ma vuole entrare in Europa e non farà niente che lo impedisca. Si terranno normalissimi processi ai colpevoli, cioè qualcosa che gli Stati Uniti quando hanno preso Bin Laden non hanno nemmeno provato a fare.”
Erdogan è al potere da quattordici anni, dopo essere stato sindaco di Istanbul. Sono abbastanza da costruire un paese a sua immagine e somiglianza. Mi ascolta guardandomi in tralice, ironico. “Berlusconi vi ha governati per quasi vent’anni e il mondo si chiede ancora come avete fatto a continuare a votarlo per tutto quel tempo.”
Sto per dirgli che Berlusconi non ha mai mandato l’esercito contro i giovani in protesta nelle piazze. Poi mi ricordo che due giorni fa era l’anniversario del G8 di Genova e che il parlamento italiano ha appena bocciato un emendamento per l’istituzione del reato di tortura.
Scelgo il silenzio. Tra i vapori di mela delle pipe ad acqua tacciamo tutti. Leggo di molte persone incredule del fatto che le cose turche viste dai turchi che sto incontrando possano essere anche solo leggermente diverse da come sembrano dall’Italia. Queste persone sono pronte a dichiarare che: – i turchi hanno subito un lavaggio del cervello, diversamente non si spiega come possano continuare ad appoggiare Erdogan il figlio di Satana. – io sono prezzolata dal governo turco per scrivere che Erdogan è popolare. – ho abdicato al mio spirito critico e ho tradito i valori democratici. Ne prendo atto. Nel frattempo, se non dispiace, continuo a raccontare quello che vedo e sento.
Sono le dieci di sera quando Fatma – la chiamerò così per un mio scrupolo – entra nel luogo del nostro appuntamento, stretta in un corto chemisier di seta di ottima fattura e con una magnifica cascata di capelli chiari che lascia sciolti sulle spalle a dispetto del caldo e del vento. Ha una spada di legno al fianco. “Me l’hanno data al workshop da dove sto venendo”, mi spiega sorridendo.
L’orario così tardo l’ha fissato lei e non ne sono sorpresa: è già capitato che qualcuno ci proponesse con disinvoltura un incontro in seconda serata. Istanbul è una città che vive molto col buio, le strade della movida sono frequentate fino alle due del mattino e nei locali ancora a quest’ora si fa fatica a trovare un tavolo. Fatma si muove per Beyoglu con sicurezza; vuole portarci a bere il raki, l’alcolico tipico, una specie di sambuca che si beve annacquata, e cerca un posto specifico, dove quando arriviamo il proprietario la saluta con familiarità. L’ho conosciuta qui a maggio durante un festival letterario e sono curiosa di sapere come legge la situazione turca una donna giovane (ha trentaquattro anni), laica, divorziata e militante in diverse associazioni femministe.
Comincia col dirmi che quando c’è stato il tentato golpe lei si trovava in Polonia per lavoro ed è riuscita a tornare in Turchia solo quattro giorno dopo. “Ho percepito subito la differenza di clima. Ho visto manifestazioni di gente che sembrava ipnotizzata e gridava cori all’unisono come obbedendo a un comando. In quelle folle ho provato a cercare con alcuni il contatto visivo, ma ne sono rimasta sconcertata: sembravano automi, quasi non riconoscessero il mio essere umana. Le folle urlanti mi spaventano.
Nelle strade poi c’è una quantità di bandiere turche mai vista. Qui siamo molto nazionalisti, per noi la bandiera è un culto, ma adesso significa qualcosa di diverso: vuol dire sostegno a Erdogan. Nel modo in cui la stanno usando non è più la bandiera di tutti. È successa la stessa cosa per piazza Taksim. Prima era la piazza della resistenza, dei moti di dissenso, adesso invece ha cambiato segno: è sempre presidiata dai supporters del presidente.” Le chiedo se in città si sente al sicuro col suo abbigliamento e il suo modo di essere.
“Dipende. Ci sono posti della città, come Beyoglu, Fatih o la mia zona dove mi sento protetta e posso camminare nelle strade da sola vestita come voglio. Ma ci sono altri posti della città, in particolare nell’area anatolica e nel quartiere aeroportuale, dove sono molto tradizionalisti: lì ho paura ad andare. I fondamentalisti islamici adesso si sentono indubbiamente più forti e quello che ieri pensavano e basta, oggi potrebbero anche provare a farlo. Per questo mi sono resa conto che sto più attenta ovunque, in generale. È questione di prudenza.”
Fatma non viene da una famiglia religiosa ed è venuta a vivere a Istanbul per studiare economia. Una volta qui però ha cambiato idea e ha preferito studi d’arte – soprattutto cinema – e comunicazione. Oggi lavora come consulente di comunicazione nel turismo e ogni tanto recita in qualche fiction. Le piacciono la musica, il teatro e la letteratura.
“A Erdogan non importa niente dell’arte. Credo sia per via della sua formazione religiosa tradizionalista e della sua scarsa cultura, ma non la capisce, non è nelle sue priorità, non ne vede il senso. In questi giorni di disordini ha dato ordine di sospendere molte attività culturali programmate, in parte perché è difficile garantirne la sicurezza e in parte perché le strade e le piazze ora sono occupate da manifestazioni politiche, che per lui sono certamente più importanti.” È fidanzata e il suo compagno è molto preoccupato della situazione: vorrebbe andarsene dalla Turchia, come molti loro amici stanno già facendo, ma lei non sente lo stesso bisogno. “Ti sembrerà naif, ma io mi considero una persona buona e questo mi fa sperare che mi succedano cose buone. Sono ottimista, credo che la situazione possa migliorare, ma forse dipende dal fatto che io ho il mio “inner corner”, il mio rifugio protetto nel teatro e nella musica, nelle cose che amo e che ancora mi legano a questo posto. I miei amici invece stanno partendo per gli Stati Uniti, per l’Inghilterra e per la Grecia, ciascuno dove ha le sue reti di relazione.”
Parliamo della condizione della donna in Turchia e lei me ne rivela tutte le contraddizioni. “La legge formalmente ci protegge, ma ci sono dichiarazioni dei membri del governo che di quando in quando ci fanno temere che tutto quello che abbiamo conquistato sia in realtà molto fragile e che la volontà governativa di proteggerlo sia sempre più debole. Lo stesso Erdogan ha detto più volte di non credere all’uguaglianza lavorativa tra donne e uomini e c’è stato un parlamentare che in un incontro con le associazioni femministe ha detto che se dipendesse da lui le donne non dovrebbero neppure ridere in pubblico. Ti immagini se il potere politico di quella parte del parlamento aumentasse fino a impedirci una risata per la strada?”
Non c’è bisogno di immaginare quello che in altri paesi è già successo, ma le chiedo se veramente crede che la società turca si farebbe imporre un arretramento simile nei diritti e nelle libertà civili. “Tutto può accadere. Cinque anni fa ti avrei detto di no, ma oggi non saprei cosa rispondere. Non so più dirti cosa in Turchia è pericoloso e cosa non lo è. Lo spirito di Gezi park sembra volatilizzato, chi ieri aveva coraggio oggi ha paura, ciascuno protegge solo il proprio recinto, non è facile immaginare alternative.”
E Fetullah Gülen, il tycoon che Erdogan accusa di essere il burattinaio occulto del golpe? “Non so se lo sia, ma di certo potrebbe esserlo. Gülen è un uomo straordinariamente potente in Turchia, ha moltissimi seguaci e le sue università sono il luogo in cui in questi anni ha costruito non solo la formazione degli studenti, ma anche il suo consenso.
Non so se questo abbia determinato un pericolo per la stabilità della Turchia, ma certamente è un’anomalia democratica avere un simile centro di potere parallelo in un paese che deve già affrontare tanti problemi. La povertà, prima di tutto. Nelle zone rurali mancano anche i servizi di base e gli ospedali.” Le dico che la Turchia nel 2016 ha previsioni di crescita economica del +5,7% – per capire la proporzione, il tasso di crescita nell’eurozona viaggia intorno all’1,5% – e anche se gli attentati e il golpe stanno dando un colpo mortale al turismo, quella percentuale di sviluppo da qualche parte starà pur andando a finire.
“Non alla povera gente. La quantità di persone che nelle zone interne vive sotto la soglia di povertà è enorme.” È mezzanotte passata e da un taxi vediamo scendere una famiglia – padre, madre e due bambini – con una fascia rossa con la mezzaluna e la stella legata sulla fronte; stanno andando in via Istiklal a gridare slogan per Erdogan. Non degnano di uno sguardo il locale in cui siamo seduti, un ristorante dove ci sono quasi esclusivamente tavoli occupati da donne. Neppure una di loro porta il velo e molte hanno i capelli tinti, fumano e bevono raki e birra. Sembra impossibile che un simile livello di diversità sociale possa essere messo a rischio senza resistenza. Fatma ha un moto d’orgoglio e di ironia: estrae dalla borsa la spada di legno e mi dice solenne: “Ci difenderemo, sorella!” Ridiamo forte e molti si girano a guardarci. “Stiamo ridendo”, le dico. “Sì, stiamo ridendo.” – risponde – “E non smetteremo facilmente.”
Gianluca è di Lodi (ma figlio di emigrati siciliani) e a Istanbul c’è venuto per amore della sua compagna, una ragazza turca conosciuta su internet dieci anni fa. La sua è la più grande agenzia di viaggi per gli italiani in Turchia anche se lui sconsolato dice che lo era.
“Accoglievamo fino a diecimila visitatori all’anno, ma da sei mesi a questa parte il susseguirsi degli attentati esplosivi ha fatto crollare le prenotazioni. Le navi da crociera nemmeno si fermano più.” Andiamo a cena proprio dove vive, nel quartiere di Beşiktaş, e con lui c’è anche un suo amico, un giornalista veneto – lo chiamerò Andrea – che abita qui da due anni e lavora come freelance per un’importante radio estera.
Entrambi parlano il turco e ci fanno strada nei vicoli con il piglio di due autoctoni, scorrendo tra i locali gremiti da centinaia di persone che mangiano all’aperto. Vedo molti abiti succinti, non una sola testa velata e tutti bevono alcoolici: a non sapere che siamo a Istanbul, potrebbe essere qualunque Europa di sabato sera.
“Qui vivono il ceto popolare e la classe media” – mi spiegano – “e la mentalità è liberal e secolare. Alle ultime elezioni CHP (ndr. il principale partito dell’opposizione a Erdogan) ha preso il 75%”. Mi dice che con ogni probabilità nei tavoli intorno a noi, tutti occupati da turchi, non c’è un solo sostenitore di Erdogan, ma che allo stesso tempo tutti sono sollevati che il golpe non sia andato a buon fine. “Abbiamo letto con totale sbalordimento il rammarico di molti opinionisti italiani per il mancato colpo di stato, persino quelli di sinistra. Mi chiedo se si rendono conto di cosa significa passare dalla normalità quotidiana alle sventagliate di mitra e al rumore dei cingolati per le strade. Quella notte gli F16 dei golpisti volavano così bassi che i vetri della nostra casa sono andati in frantumi. Io e la mia compagna ci gettavano dal letto a terra a ogni volo radente, terrorizzati. Quanto bisogna essere irresponsabili per desiderare che un governo, anche il peggiore, cambi in questo modo?”
Cerco di capire perché il golpe non ha funzionato, considerato che la Turchia è un paese dove gli ultimi quattro colpi di stato hanno invece funzionato benissimo e la stessa costituzione affida all’esercito la difesa della laicità. “La laicità non c’entra, non è mai stata in discussione. La verità è che cose sono cambiate.
Non è più il 1996, quando ai carri armati bastò schierarsi davanti al parlamento senza sparare un colpo per essere seguiti dalla gente e far cadere il governo della destra filoreligiosa. A questo giro hanno pesato due fattori: da un lato l’esercito era diviso, dall’altro le persone si sono spaventate alla prospettiva di un golpe militare proprio mentre nel paese c’è il clima di insicurezza generato dagli attentati degli ultimi sei mesi.”
Il vantaggio di parlare la stessa lingua e di avere gli stessi riferimenti ci consente di approfondire il discorso Erdogan molto di più di quanto non sia stato possibile fare con i turchi che ho incontrato fin’ora. Parliamo della presunta islamizzazione della Turchia e Gianluca e Andrea mi rispondono quasi all’unisono.
“Nessuno degli inviati italiani che ha scritto quelle cose ha realmente messo piede qui o conosce la realtà di cui parla. L’islamizzazione non è il problema della Turchia. Le uniche due leggi che Erdogan ha fatto in favore islamico sono l’aver tolto il divieto di indossare il velo nelle università, una norma ideologica e illiberale, e l’aver introdotto il divieto di vendere alcoolici dopo le dieci di sera, che peraltro vige in molti centri storici delle città italiane. Certo, ci sono zone dove una donna è più al sicuro e altre in cui non lo è, ma questo vale anche a Milano, a Roma, a Napoli, figurati in una città di diciannove milioni di abitanti. Quello che l’informazione italiana non sembra capire è che Erdogan è prima di tutto un populista che accarezza il consenso delle maggioranze e che essere un paese a maggioranza musulmana non significa che la maggioranza vorrebbe lo stato islamico: la percentuale di turchi che desidererebbe la shari’a non va oltre il 7%.”
Andrea è ancora più esplicito. “L’islamizzazione è fumo negli occhi dell’opinione pubblica europea, che cerca conferme della propria islamofobia. Il problema turco è invece l’autoritarismo. Ho provato sulla mia pelle cosa significa essere percepiti come dissenzienti dal governo, perché l’anno scorso sono stato arrestato in quanto giornalista. Insieme a un collega di Radio Radicale sono andato a documentare la parata del Gay Pride e avevo già pronto il titolo, qualcosa tipo “L’arcobaleno sui minareti”.
Invece mi sono trovato davanti i militari che hanno disperso la parata con violenza e hanno portato noi in caserma. Ci siamo rimasti tre ore prima che il Consolato ci tirasse fuori e ho ancora il ricordo della macchia di sangue che ho visto sul pavimento della stanza e le finestre sfondate dai sassi che arrivavano dai tumulti della strada.” Questa repressione è un problema di omofobia?
“Non direi. L’omofobia in Turchia è di poco più evidente di quanto lo sia in Italia. Questo negli ultimi dieci anni è stato l’unico paese musulmano a consentire il Gay Pride e ad autorizzarlo è stato lo stesso Erdogan. Il punto è che da tre anni a questa parte, dopo i tumulti di Gezi Park, con la scusa della sicurezza ogni manifestazione che non sia di supporto al governo è stata vietata. Piazza Taksim è diventata tabù per tutti, tranne per i sostenitori di Erdogan: infatti adesso ci arriva quasi un sms al giorno da parte della municipalità che ci invita a scendere il piazza per questa o quella festa di liberazione democratica. Per queste manifestazioni stranamente il problema di sicurezza è stato risolto.”
Chiedo loro perché una società laica e moderna come quella turca sta consentendo questa deriva autoritaria. “In parte dipende dal fatto che la percezione di quello che è democratico e di quello che non lo è cambia da paese a paese, e vale anche per il nostro. L’Italia è al 77° posto al mondo per la libertà di stampa, cioè l’ultima in Europa e dietro persino al Nicaragua, ma l’opinione pubblica italiana non realizza minimamente il fatto che mezzo mondo ci consideri un paese poco libero. Chiamare un ministro di colore “orango” sarebbe stato considerato gravissimo in Germania, mentre da noi non ha determinato neppure una sanzione. Allo stesso modo il concetto di democrazia qui non contempla ancora la possibilità di un dissenso forte, continuato e organizzato, che è piuttosto recepito come un tradimento. Diciamo che alcune delle cose che stanno avvenendo qui non sono sentite dall’opinione pubblica turca con la stessa gravità con cui le giudichiamo noi. Inoltre c’è il fatto che l’Europa non ha insistito in alcun modo sulla questione dei diritti umani in Turchia, l’unico vero argine per costruire una mentalità che fermi l’autoritarismo. Preferiscono parlare di islamizzazione, perchè la verità è che l’autoritarismo di Erdogan è andato benissimo quando è servito a fermare i profughi siriani in fuga verso l’Europa.”
E la questione delle epurazioni, le liste delle persone dissidenti? “Le liste esistono in ogni governo, democratico o no. Cambia solo il modo in cui vengono usate. È ridicolo che molti opinionisti italiani abbiano desunto che il golpe fosse finto dalla velocità con cui sono saltati fuori gli elenchi delle persone presuntamente coinvolte. Si sono dimenticati che quando circolò la velina dei carabinieri su Dino Boffo, il direttore dell’Avvenire, c’era scritto sopra che era “attenzionato come noto omosessuale”. Le forze dell’ordine italiane hanno liste di omosessuali? E se sì, per farne cosa? Lo stato italiano ha liste di anarchici, di attivisti dei centri sociali, di omosessuali, di qualunque categoria che sia considerata destabilizzante rispetto all’ordine costituito. Ogni governo stabilisce da cosa si sente minacciato e agisce a seconda della forza che l’opinione pubblica del paese consente che venga usata.”
E questo cosa comporta in Turchia? “Comporta la scomparsa di ogni dissenso organizzato. Si rischia troppo. Io stesso avevo un blog fino a qualche tempo fa, in cui parlavo della situazione politica. L’ho chiuso. Gli attivisti sono in ombra, hanno paura. Per chi fa una vita senza impegno civile questa città è perfettamente vivibile, lo vedi anche tu che normalità si respira, ma se hai la minima intenzione di metterti a cambiare le cose, sai benissimo che qualche rischio lo corri.”
Mentre ci riaccompagna alla stazione dei taxi gli chiedo se ha mai pensato di andarsene. “Sette anni fa questa era probabilmente la migliore città al mondo dove vivere, avresti dovuto vederla allora. Poi tutto ha cominciato a destabilizzarsi. Qui vivono diversi italiani e subito dopo il golpe abbiamo sentito il bisogno di cercarci e di stringerci. Credo sia lo stesso sentimento che muove tutte queste persone che vedi a cercare un normalità per le strade. La cosa peggiore che poteva succedere è che ci rintanassimo tutti o che scappassimo. Qualche amico lo sta facendo e lo capisco, è stato un brutto trauma, ma noi ancora non ci stiamo muovendo in quella direzione. È improbabile che la situazione possa migliorare a breve, ma Istanbul per noi ormai è casa.”
Da Istanbul ho finito.