In questo tempo estivo vi racconteremo brevi note di viaggio, incontro, vita vissuta in una città che ognuno di noi ha scelto per i più diversi motivi. Oltre le guide turistiche, dentro strade e su muri, nelle piazze e in piccoli ricordi.
Testo e foto di Laura Silvia Battaglia
Da Baab al Yemen in poi si apre la promenade di negozi, carretti di gelato, mendicanti, pappagalli, uomini e mezzi. Chi entra a Sana’a da qui, capisce subito che questa città è una promessa di bellezza, un luogo intatto dai consumi sfrenati e dalle opulenze del Golfo e che, per questa purezza, potrebbe pagare un prezzo molto alto.
Lo capì già Pasolini negli anni Settanta e Sana’a non è mai stata troppo diversa dalle sue descrizioni, nemmeno quando la rivoluzione è piombata in piazza Tahrir nel 2011 e le strade, fino al muro di Karama, si sono trasformate in accampamenti e sit-in per chiedere la destituzione del presidente Ali Abdullah Saleh.
Arrivai immediatamente dopo quegli avvenimenti, sulla scorta dei suggerimenti di un amico fotografo che nella rivoluzione in Yemen ci aveva lasciato il cuore e uno dei momenti più esaltanti della sua vita professionale. Arrivai di notte. Cercavo un luogo antico dove rifugiarmi dalla competitività delle redazioni, dalla ipocrisia dei datori di lavoro, dalle invidie malcelate dei capi, dalle battutine dei colleghi. Cercavo la pace interiore, l’isolamento dei giorni di studio.
La mia prima Sana’a era un quadrilatero di strade intorno a piazza Tahrir, costeggianti la vecchia sede del Parlamento; i punti cardinali erano il collegio YCMES, il dormitorio, il negozio di frutta del giovane Yousuf, il ristorante di kebab yemenita del signor Ahmad al Musji. Più a Nord, la mia cartina segnava solo l’ospedale. Più a Sud, la moschea e la banca, prospicienti su Tahrir.
I primi 20 giorni li passai dentro questo perimetro, cercando di prendere le misure di questa cultura, dei suoi riti; intuendo come approcciarmi con le vecchie al panificio, con le ragazze in niqab che mi guardavano curiose, con i giovanotti sulle moto enduro che cercavano di piazzarsi non molto distanti dal collegio, per lanciare l’occhio su qualche rara occidentale.
Da subito mi apparve come un luogo uniforme, semplice, senza tanti fronzoli o orientalismi d’accatto: a Sana’a, semplicemente, si nasce, si fatica, ci si sposa, si figlia e si muore. In mezzo a questo, si balla e si spara. E sopra tutto questo, si prega, e anche parecchio.
Il quadrilatero della mia geolocalizzazione iniziò ad allargarsi quando Veronica mi portò in giro. La segretaria del collegio, inaspettatamente, era italiana: una bella veneziana dalla parlantina facile e piacevole, che si esprimeva in perfetto dialetto locale, il sanaani. Con lei ci dedicavamo a scorribande mirate nei ristoranti a pranzo, alla ricerca della selta (piatto tipico a base di carne, prezzemolo e spezie) e ci appollaiavamo sulle sedie sghembe della famosa sala da tè sulla ring road Saila, gestita da uno degli uomini piu noti di Sanaa, un vecchio dall’età indefinibile che, per noi, visto lo stato di pulizia in cui versava, era semplicemente “ il lurido”.
La mia conoscenza di Sana’a è sempre avvenuta per cerchi concentrici. Dopo “il lurido”, fu la volta di superare la Saila (ormai diventata una circonvallazione trafficatissima) ed entrare nella città vecchia. Ma non ero attratta dalle spezie e dalle botteghe. L’orientalismo era sempre in agguato. Invece, non mi dispiaceva mai passare dal cubicolo di un sarto, dove il proprietario teneva in bellavista un manichino decapitato con la scritta “Falluja” sul seno di plastica e da un cortile prospiciente sui giardini della città Vecchia, dove un gruppo di ragazzi saltavano come antilopi facendo un elementare parkour.
Sana’a era fatta anche di incontri surreali. Come il signor Abdallah al-Dahri che si offrì di farmi da cicerone durante una mia puntata in città da sola e che poi, insistendo per offrirmi il pranzo, mi chiese senza mezzi termini se potevo aiutarlo a farsi una dentiera nuova in Italia; o Antar al-Aldhary, il judoka olimpionico che si allenava in una palestra di quartiere, dove nella sala accanto i lottatori di wrestling se le davano di santa ragione.
La Sana’a di Pasolini, dopo il mio primo mese in città, era diventata altro. E questo altro si configurava come una sovrapposizione a scacchi di condizioni economiche, sociali e di potere diverse, di rapporti di forza diversi, di esistenze anche lontane anni luce, dove l’unica cosa che accomunava tutti ma, allo stesso tempo, li distingueva per classi, era il rito della masticata del qat, al quale non mi sono mai sottratta.
Così succedeva di passare una giornata intera al grande albergo Movenpick, per seguire le attività della Conferenza di dialogo nazionale, e ti accorgevi nello spazio di un secondo, quanto coloro che sedevano intorno ai tavoli fossero totalmente scollati dalla maggioranza della popolazione, vuoi perché vivevano all’estero da molti anni, vuoi perche vivevano in aree blindate, nelle loro ville da un paio di milioni di dollari, vuoi perche esternamente sembravano gran signori ma sguazzavano nella corruzione. Il giorno dopo ti catapultavi nello slum dei black skinned di Sana’a, un insieme di baracche messe su alla bell’e meglio, qualcuna sostenuta dai copertoni, con bambini sciamanti dappertutto e vecchi sdentati che avrebbero venduto anche la loro madre per avere un briciolo della tua felicità.
Fuori dai merletti delle case del centro, Sana’a si estendeva nella sua caotica fibrillazione verso la zona di Hadda, una sovrapposizione di sogni consumistici (negozi di macchine di lusso, supermercati, centri commerciali), servizi per stranieri (la pizzeria italiana, l’internet cafe, il negozio di donuts e pan cake), ambasciate. Qui, ho passato le mie giornate migliori nel primo spazio di coworking del Paese del gruppo di attivisti “Safeyemen”, tra le menti più brillanti della rivoluzione del 2001, filmaker, registi, attivisti, femministe yemenite che hanno sempre difeso la necessità di traghettare il Paese verso il pluralismo, la scolarizzazione per giovani e donne, l’arte, il cinema. Sarah, Abdulrahman, Saif erano sempre nel pieno dei preparativi e nessuno poteva fermare il loro entusiasmo. Dalla parte opposta, si snodavano i ministeri, gli ospedali, i palazzoni con gli uffici e le cliniche: in un paio di occasioni, facendo la spola tra centri di analisi del sangue, uffici di avvocati , studi di oculisti, ministeri per il rilascio di passaporti , visti e permessi, saggiavo la burocrazia nella quale si muovevano i comuni mortali, con lunghe attese, tentativi di raccomandazione per fare passare in testa il disbrigo dei propri documenti, e furbi venditori di pannocchie arrostite davanti a ogni cancello, pronti a lanciare la sirena del cibo profumato ai pazienti annoiati dall’attesa biblica.
Poi, chiusa questa parentesi, rientravi in città vecchia attraverso l’arteria, che avevo soprannominato shara Arusa (“la strada della sposa”), una sequela di negozi per nubende, con le mise piu improbabili e costose, e gruppi di donne niqabate che sciamavano da un negozio all’altro in cerca dell’offerta più conveniente.
Per le spese in profumeria, alla ricerca di un fondamentale deodorante, o per una abaya piu coprente toccava eseguire lo struscio in shara (via) Jamal, con breve sosta ai carretti che vendevano patatine fritte, nuggets e dissentanti e polposi succhi di frutta al mango. Negli ultimi tempi di mia permanenza in citta, due anni e mezzo dopo il mio primo arrivo, mentre il colpo di stato dei ribelli houti imperversava ovunque, era la meta obbligata mia e del mio futuro marito, alla ricerca di una valigia cinese gigante, dove stipare ogni suo avere, prima di fuggire verso l’Occidente sempre sognato, in una complicata valutazione di rischio su quali bus prendere, quale strada fare, quali check point attraversare nella città ormai tagliata in due dalle nuove milizie.
Shara Jamal era l’oasi della spesa di qualità della middle class accanto a piazza Tahrir, il luogo simbolo della politica, delle poste, delle banche, dei money trasfer, delle idee e dei venditori di libri. Nell’ottobre 2014 la vidi cambiare d’un tratto, nell’arco di poche settimane. Due avvenimenti le diedero il colpo di grazia: il mattino del 9 ottobre, quando un killer suicida si fece esplodere nella sede della Banca centrale, tenendo per mano due bambini. Mezz’ora dopo, sul luogo dell’esplosione, non c’era dubbio che Sana’a non sarebbe tornata mai quella di prima: più di 180 feriti, circa 70 morti, sandali, scialli, ortaggi, fiori e cinture ovunque, in un puzzo insostenibile di carne umana arrosto, benzina e impasto di sangue rappreso. Avevo visto queste scene, ripetutamente, per anni, solo a Baghdad e sapevo che questa sarebbe stata solo la prima. Qualche giorno dopo, la piazza Tahrir era piena di una folla minacciosa. Non era la stessa che animava le piazze durante la rivoluzione del 2011: non c’era una sola donna, anche anziana; non c’era un solo giovane che non fosse visibilmente un montanaro del Nord del Paese; non uno senza kalashikov. L’accesso alla piazza era interdetto, nonostante l’unico amico houti che abbia avuto nella mia vita, Saif, si facesse in quattro per ottenere il permesso. E anche quando lo ottenne, me ne stavo prudentemente in alto sul muretto, affinché nessuno potesse sfiorarmi, perfettamente intabbarrata con la macchina fotografica, e nessuno potesse pensare che ero una spia o una poco di buono. Gridavano tutti “morte a Israele, morte all’America” e lì mi fu chiaro che Sana’a sarebbe entrata in una precisa direzione, in una guerra annunciata che con difficoltà avrei potuto raccontare.
Nella mia Sana’a, ogni giovedi c’era anche la visita obbligata alla moschea Salem Saleh, enorme, moderna, bianca, simbolo della ricchezza del Paese ai tempi di Ali Abdullah Saleh.
Mi ci recavo sistematicamente per passare le ore del pomeriggio del giovedi con la mia amica canadese Brenda, una occidentale convertita all’Islam e sposata con un ingegnere del posto, e Afef, che era la responsabile locale dei corsi di lettura coranica. Le donne, dopo la preghiera, tiravano fuori un quantitativo spropositato di dolcetti e succhi di frutta. Ero sempre la benvenuta anche perché la mia presenza invogliava sempre a una puntatina al parco giochi di fronte la moschea, dove si recavano tutte le famiglie che facevano pic-nic negli enormi giardini della piazza, fino alla sera. Fun city – questo il nome del parco giochi – era il posto più bello e incredibile della città; galeoni e autoscontro lavoravano a tutte le ore per accontentare bambine e madri. Era un luogo per famiglie, con zone separate per le donne. Rigorasamente halal ma pieno di gioia, divertimento e di una qualche illusione di rischio e libertà, per tutte quelle ragazze che provavano l’ebrezza della sospensione in alto e si lasciavando andare a gridolini isterici.
Ad oggi, manco da più di un anno nella mia Sana’a ma la sua presenza mi funesta ogni notte e ogni giorno. Ogni giorno perché ne scrivo e sono costretta a parlare di questa guerra dimenticata da tutti e dai media in particolare; di notte perché spesso essa e i suoi abitanti tornano in sogno, sia a me che a mio marito, in fogge e attivita diverse, drammatiche, violente: si vive nel basso continuo costante che la tragedia possa colpire la tua casa, i tuoi cari.
Personalmente, mi è già capitato, quando ho ricevuto sui social, a freddo, la notizia della morte del mio collega fixer e amico fraterno Almigdad Mojalli, morto sotto un bombardamento della Coalizione.
Qualche giorno fa, andando a cercare messaggi perduti nelle caselle esterne di Messenger, ne ho visto uno che mai avevo aperto: era quello del suo medico che pensava di farmi piacere inviandomi l’ultima istantanea di Almigdad nella morgue, i denti diventati neri dal veleno delle bruciature che il bombardamento gli aveva procurato internamente, la testa allungata e immobile nella compostezza innaturale del suo corpo.
Confesso di non averla mai riaperta perche non riconosco in quella buccia di morto l’uomo con cui ho condiviso l’esplorazione della mia Sana’a. Confesso di non riconoscere piu Sana’a senza la mia Fun city, oggi un ammasso di lamiere informi, senza la vita di donne e bambini sciamanti al suo interno e senza il galeone di terra con le luci a intermittenza, abbattuto nel suo ondulare sbilenco da un aereo caccia F35 che sapeva alzarsi piu potente e più alto di lui in volo.