Per arrivare a Policoro, passando da Matera, devi guardare bene fuori dal finestrino e imparare a distinguere un trullo da un cantiere, un senso unico, da un senso confuso.
di Gabriella Ballarini
Queste prossime righe raccontano quello che ho visto dal mio finestrino e poi anche quello che ho potuto camminare e riconoscere. Forse.
È la prima volta che faccio questa strada, ho capito che bisogna sempre godersele le prime volte, perché sono come quei sogni che al mattino non te li ricordi, ma ti lasciano un solco, che ti vien voglia di camminarci dentro.
Vedo le strade incompiute che sembrano esser lí da sempre. Gli angoli arredati dagli ombrelloni delle ragazze straniere che si riparano dal sole cocente condito d’asfalto, tra un cliente e l’altro in un tempo sospeso che cancella il tempo e lo trascina nei suoi abissi. E gli ulivi scompaiono e sembra esserci il deserto e gli intrichi di strade statali e tutto si risolve in strisce gialle al pavimento e cartelli provvisori e provvisoria la cava di pietre, che poi magari ci costruiamo un trullo oppure ci fermiamo le ruote del trasporto eccezionale abbandonato, che nessuno guiderà più.
Mi appoggio col naso al vetro dell’auto e gigante appare la scritta soft line, la linea morbida di un’ industria piccola, di un arancione forte, e la direzione “Altamura” si mischia con Matera in uno svincolo provvisorio anche lui, giallo, da dimenticarsi l’arancione confidando nelle tinte tenui della sabbia e dei sassi.
Il destino degli ulivi lungo le strade è materia disarmante. Alberi intrappolati negli arbusti dimenticati, alberi ingialliti dal cuocere della terra, alberi che sprecheremo il loro frutto, dimenticheremo il sapore del pane e dell’olio e del sale.
O forse no. Il paesaggio cambia in continuazione. Qui gli alberi sono piantati in geometrica perfezione, l’erba eliminata ai piedi dell’ulivo a disegnare un cerchio, il sole che permette all’ombra di dipingere il suolo. E così si mettono in fila tutti i colori: il nero, la terra, il verde, quell’argento della foglia guardata dal basso, il bianco che vedi dal finestrino se la macchina va troppo veloce e diventano righe su cui vorresti scriverci che una dolcezza così non l’avevi ancora mai vista.
Senza preavviso arriva Matera ed iniziano le frecce ad indicare “sassi”, le frecce marroni, quelle dei centri storici, i simboli a descrivere “patrimoni”. I sassi non si vedono subito, sono nascosti dalle case senza sassi, dai negozi che chiudono a mezzogiorno e mezza, per andare tutti a mangiare: riapriremo alle 16.00.
La terrazza la trovi perché vedi che la gente va tutta da quella parte, i sassi li senti arrivare perché gli occhi cominciano a farti male a causa del riflesso, del bianco e del sole che si scontrano e ti arrivano dritti allo sguardo, che si chiude a fessura, impreparato alla meraviglia.
Prendo la reflex e scatto una fotografia e poi un’altra, con il cellulare, per farla vedere a mio padre questa città, che lui viaggia poco e fa sempre e solo due itinerari, ma ora sul suo telefono ci puoi vedere anche le foto e lo faccio viaggiare così. Dopo due giorni mi ha detto: “è proprio bella”. Mio papà resta analogico, ha bisogno di un paio di giorni, per stamparsi la foto in testa e restituirne la bellezza.
Matera è proprio così, te la devi far scendere dagli occhi al cuore. Quando ci cammini dentro ne puoi cogliere quella malinconica provvisorietà, quel fruscio di passi silenziosi, degli impavidi turisti dell’ora di pranzo che sfidano la pietra e si svestono al suo calore.
L’auto era parcheggiata in salita, il sole ce l’ha conservata calda per l’ultima parte del viaggio: l’arrivo a Policoro.
C’è un punto, vicino al mare, dove tutte le vie hanno il nome di un filosofo o di un mito greco, la prima notte stavo in via Catone e mi accorgo, la sera, che un’amica aveva appena condiviso queste parole: ” … ogni qualvolta c’è un umido e tedioso novembre nella mia anima; ogni qualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo davanti a depositi di bare o in cammino dietro a tutti i funerali che incontro; e specialmente ogni qualvolta l’insofferenza mi possiede a tal punto che devo far appello a un saldo principio morale per trattenermi dal discendere in strada e buttar giù metodicamente il cappello di testa ai passanti, giudico allora che sia venuto il momento di prendere il mare al più presto possibile. Questo è il mio modo di sostituire pistola e pallottola. Con un fiorito filosofare Catone si gettò sulla spada; io, con calma, mi imbarco…
(H. Melville, Moby Dick)”
Al mattino percorro poi la strada che separa via Catone dal mare. Il vento fa muovere tutte le cose in questa fine estate. Mi tuffo in un apparente oceano di ciottoli e meduse. Prendo il largo e distraggo lo sguardo verso la linea che separa il cielo da me.