Bocciato dal referendum popolare, si lavora a un nuovo testo con le Farc
di Mauro Morbello
Il referendum convocato domenica 2 ottobre 2016 dal presidente Juan Manuel Santos, insignito del Premio Nobel per la Pace, per confermare con decisione popolare l´approvazione dell’accordo di pace che avrebbe dovuto porre fine a 52 anni di conflitto armato tra il governo della Colombia e le FARC é fallito.
Come in un racconto del realismo magico di Garcia Marquez, dove realtà e illusione si confondono, l´accordo di pace firmato appena una settimana prima in pompa magna alla presenza di dignitari di tutto il mondo, Nazioni Unite ed Unione Europea non esiste piú.
Il paradosso è che il referendum non era neppure necessario per confermare l´accordo. Sembrava fosse solo un dettaglio, la classica ciliegina sulla torta. Ma la ciliegina deve essere andata di traverso al presidente Santos, che dal risultato del referendum sperava di ottenere la sua consacrazione politica.
Infatti, nonostante i sondaggi dessero ampiamente in vantaggio il sì all’approvazione dell’accordo di pace, il risultato finale ha lasciato tutti di sasso: la maggioranza dei votanti, seppur con uno scarto di appena 55mila voti, lo 0,16 per cento del totale degli aventi diritto, ha deciso per il no. Accordo rifiutato.
Il risultato dimostra quanto la Colombia sia un paese diviso. Non diviso in due, ma in tre. Sì, perché su un totale di circa 35 milioni di cittadini aventi diritto, hanno espresso la loro volontà attraverso il referendum solo il 37 per cento dei votanti: poco meno del 19 per cento in favore dell´approvazione dell´accordo di pace e poco più del 19 per cento per rifiutarlo.
Oltre il 60 per cento della popolazione non votato. La bassa partecipazione al referendum è stata spiegata in parte per le pessime condizioni climatiche che hanno colpito la Colombia durante la giornata di domenica 2 ottobre, soprattutto nella zona della costa caraibica, che proprio in quelle ore era colpita dal passaggio dell´uragano Matthew. In realtà, come spesso succede, non solo in Colombia, la situazione è molto più inquietante.
Su aspetti di centrale importanza per il benessere complessivo di un paese, solo una parte della popolazione si impegna a cercare di capire, analizza contenuti e proposte, in maggiore o minore misura li discute e, in un modo o nell’altro, decide di incidere con il proprio voto. Purtroppo un´altra parte della popolazione, ormai sempre più spesso maggioritaria, non interviene. Alla fine, però, in questo modo sono finalmente loro a decidere.
Per quanto riguarda la Colombia la situazione è ancora più complessa. Se si analizza la distribuzione dei voti in favore e contro l’approvazione dell’accordo di pace, risulta chiaro chi è stato a favore e chi contro: coloro che hanno sofferto le conseguenze della guerra hanno votato a maggioranza per il sì; l´altra parte del paese, quello che vive nei centri urbani dove si concentra la piccola, media e alta borghesia che la guerra l´ha vista solo da lontano, hanno votato no.
Sono stati quindi soprattutto coloro che hanno sofferto la guerra sulla propria pelle che hanno riconosciuto l´importanza di arrivare alla pace.
Non dobbiamo dimenticare che un accordo di pace in Colombia non è una cosa da POCO. e’ questione di porre fine ad una vera tragedia: il più lungo conflitto armato del mondo occidentale, che ha provocato almeno 260mila morti, quasi 7 milioni di sfollati, migliaia di violenze sessuali e sequestri e un costo economico di oltre 137 miliardi di dollari.
Ma il vero problema adesso è cosa fare. Nessuno l´ha chiaro. Neppure i fautori del rifiuto dell´accordo, rappresentati dall’ex presidente Alvaro Uribe, leader dell’estrema destra del paese, che ha cavalcato il rancore e la paura per bloccare la pace. Riuscendo ad arrivare alla pancia della gente e facendo scordare a molti che, come diceva Cicerone, è sempre meglio una brutta pace di una bella guerra.
In questi giorni di confusione tutti ribadiscono comunque di volerla, la pace. Ma il problema è che un accordo che di fatto era già stato siglato tra due parti, il governo colombiano e le FARC, adesso dovrà essere discusso con tre interlocutori, perché sulla base dei risultati del referendum anche l’opposizione è chiamata a dire la sua. Se i negoziati tra due parti, durati oltre quattro anni, sono stati difficili, possiamo immaginare che in tre sarà certamente peggio.
Nella nebulosa e pericolosa situazione venutasi a creare dopo il referendum, per la maggioranza degli analisti esistono per ora fondamentalmente cinque scenari possibili:
1. tornare a negoziare, mettendo in discussione principalmente i punti contestati dagli oppositori dell´accordo, che si riferiscono soprattutto da un lato alla necessità di punire con detenzione effettiva i responsabili di delitti commessi in nome della guerriglia, dall’altro che le FARC non dispongano in maniera automatica di rappresentanti politici per due mandati nel parlamento colombiano. In realtà la possibilità di rinegoziare aspetti fondamentali dell´accordo risulta poco praticabile. Le FARC non sarebbero disposte a rinegoziare per meno di quello che hanno già ottenuto e il governo del presidente Santos non accetterebbe di ridiscutere in termini che rappresenterebbero in maniera evidente una sua sconfitta politica;
2. formare una Assemblea Costituente, richiesta avanzata dalle stesse FARC all´inizio dei negoziati, con l´obiettivo di riformulare una costituzione nazionale che includesse anche una loro presenza e prendesse in considerazione contributi di stampo progressista. Tale possibilitá era stata successivamente lasciata cadere. Ora risulterebbe difficile da applicare per la complessitá della procedura e i tempi richiesti, che entrerebbero in collisione con le elezioni politiche nazionali previste nel 2018;
3. dare corso legale all´accordo già raggiunto da parte del Parlamento, si tratta di una possibilitá molto remota perché da un lato contraddice la volontá popolare e dall´altro crea un conflitto di competenze tra parlamento, corte costituzionale e presidente della Repubblica, che dovrebbe controfirmare la legge, ma ne sarebbe impedito per l´obbligo di rispettare la decisione emersa dal referendum;
4. dilatare le decisioni definitive sull´accordo di pace sino a dopo le elezioni previste per il mese di maggio del 2018, in modo tale che chi vincerá risulterá legittimato a implementare la decisione sulla base di un accordo che sará stato oggetto della campagna elettorale e quindi di fatto giá votato dalla popolazione. In questo caso si dovrebbe ovviamente offrire alle FARC una alternativa di smobilitazione che permetta la riconversione alla vita civile dei miliziani ed una possibile partecipazione política all´organizzazione. Si tratta di una alternativa non facile da accettare per le FARC perché anche in questo caso dovrebbero rinunciare a concessioni maggiori giá ottenute;
5. l´ultimo scenario identificabile al momento, il più tragico, sarebbe un ritorno alla guerra. Scenario poco probabile perché dopo 52 anni di conflitto tutte le parti in causa sembrano aver capito che la violenza non serve a trovare una soluzione per arrivare a un accordo. Situazione comunque possibile, nel caso le posizioni sul tavolo dovessere arrivare a un punto di incociliabile rottura.
Per ora sia le FARC che il Governo colombiano hanno confermato il mantenimento del cessate il fuoco bilaterale sino al 31 ottobre 2016. Ci sono quindi poco più di 3 settimane per identificare uno scenario utile per riprendere il cammino della pace o tentare un nuovo percorso.
Non bisogna però dimenticare che oltre a coloro che vogliono la pace ci sono anche coloro che soffiano sul fuoco del mantenimento del conflitto. Da un lato l’estrema destra latifondista, in un paese dove il 5 per cento della popolazione possiede il 97 per cento della terra, che conta ancora con migliaia di uomini in armi, gli antichi paramilitari adesso chiamati badcrim che ‘difendono’ le proprietà.
Dall´altro anche parte delle FARC, che non hanno voluto accettare una cessazione del conflitto, come il cosidetto Frente Primero che dispone di circa 400 uomini in armi, controlla il territorio del Dipartimento di Vaupes, nella regione sud orientale della Colombia alla frontiera con il Brasile, dispone di notevoli risorse economiche derivanti dal commercio della droga.
E infine continuano a rimanere attivi anche altri gruppi armati come ELN- Ejecito de Liberación Nacional e in minor misura EPL- Ejército Popular de Liberación.
A rendere ancora più paradossale la situazione è la notizia che il presidente Juan Manuel Santos ha vinto il premio Nobel per la Pace 2016 “per il duro lavoro svolto e gli sforzi risoluti nel portare la pace nel suo paese. Nonostante l’accordo sia stato bocciato in un referendum, non è stato bocciato il desiderio di pace, ma uno specifico accordo”.
Pur volendo considerare il premio un apporto per far conoscere al mondo il conflitto colombiano e stimolare a proseguire sul cammino della pace, la scelta lascia perplessi.
Da un lato non dobbiamo scordare che prima di diventare Presidente, tra il 2006 e il 2009, Santos è stato Ministro della Difesa nel Governo di Uribe, il principale oppositore all´accordo di pace. Dall´altro il fatto che il premio sia stato consegnato solo a una delle parti che hanno negoziato l´accordo a molti non pare giusto.
Non vogliamo essere pessimisti ma il cammino sulla via della pace in Colombia, che sembrava così vicino solo dieci giorni fa prima del no al referendum, appare oggi ben più tortuoso e difficile. Nonostante il premio Nobel.