Di felicità personale e politica, riflessioni da un viaggio in Islanda
di Nicolò Cesa, dall’Islanda
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Sarà la crisi dei valori, il crollo delle ideologie, il mondo liquido, la post-modernità. Sarà quel che sarà, fatto sta che – a mio avviso – esiste un meraviglioso dilemma che, da anni, accompagna tutte le mie azioni e che puntualmente porta scompiglio tra le mie convinzioni: è più rivoluzionaria la vita di un singolo che ha deciso – senza alcuna pretesa pedagogica, sociale o politica – di puntare tutto sulla propria felicità “aldilà del mondo” oppure quella di chi crede che al di fuori di ciò che è collettivo, organizzato, numerico e sommato, non ci possa essere nulla di “politico”?
Mi spiego meglio: chi ha avuto o ha a che fare con il “secondo mondo”, inteso come quello della seconda parte del dilemma, si sarà accorto che molto spesso i suoi abitanti sono persone che non riescono ad essere felici.
Per varie (e condivisibili) ragioni: perché in Africa i bambini continuano a morire; perché la guerra dilania le generazioni del medio-oriente; perché la chiesa non ha mai parlato di AIDS; perché D’Alema oggi dice cose improvvisamente sensate; per tante ragioni che, allo stesso tempo, sono il fine ed il mezzo delle loro battaglie.
Però poi accade che, inevitabilmente, quei mali giganti e (forse) irrisolvibili finiscono per sortire un solo ed unico effetto su chi li cerca di combattere: l’imbruttimento.
Psicologicamente la frustrazione è “quello stato psicologico che si verifica quando un ostacolo blocca il conseguimento di un fine da parte di un organismo che sia motivato a conseguire quel fine.” E puntualmente c’è sempre un’ostacolo, appena prima della fine definitiva di un male che attanaglia il mondo.
Così nonostante gli sforzi (individuali), l’impegno, la militanza, quel male continua testardamente ad esistere: i bambini continuano a morire con la mosca sul naso, in Africa; la guerra cambia solo le sue coordinate geografiche ma non smette di essere l’unico mezzo utilizzato dagli stati per affermare la propria forza sugli altri; la chiesa cattolica cambia papa ma ancora non si parla di AIDS; e D’Alema, nonostante le condivisibili uscite, resta pur sempre il premier che bombardò Belgrado, che tradì la Costituzione e che non parlò abbastanza di AIDS e non fece nulla per i bambini in Africa.
Ma nel frattempo il tempo della vita corre, e alla frustrazione per il mancato raggiungimento di un fine resta il rimpianto di non aver puntato mai sulla propria felicità, sulla propria soddisfazione personale, individuale e biografica.
Anzi, gli abitanti del secondo mondo troppo spesso vedono gli abitanti del primo come egoisti, individualisti, disinteressati al male dell’altro, se non addirittura complici del sistema, dei poteri forti, del consumismo e dell’edonismo. Nemici del mondo (che potrebbe essere) migliore ma che poi, in fondo, non lo è mai. Viviamo per essere felici o per essere giusti?
Non so chi abbia ragione. E a dire il vero non saprei nemmeno dove collocarmi in questa personale costruzione dicotomica. Ma credo che la felicità, la soddisfazione e la serenità individuale siano innanzitutto aspetti politici della vita di un essere umano. Aspetto che viene sottovalutato dagli abitanti del “mondo della giustizia”.
Le radici di questo atteggiamento andrebbero ricercate anche nell’influenza della religione cattolica nella nostra società: Dio è colui che ci libera dal dolore e dalla sofferenza.
Per citare Paolo: “La tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza”. Dalla tribolazione alla speranza, passando per la pazienza, intesa come virtù. E’ la beatitudine degli afflitti, la pedagogia della croce, di Gesù che ci invita a prenderla e a fare ginnastica del dolore.
Tanto poi ci sarà Dio a curare le nostre ferite e a liberarci da quel dolore: “io sono Dio, colui che ti guarisce” (Rm 5, 3-4). Le ideologie novecentesche hanno sostituito quel Dio con altri assoluti, certamente più laici ma altrettanto pericolosi dal punto di vista delle conseguenze della traduzione in pratica, in realtà, di questa o quella ideologia. Ricordate l’incontro tra l’inquisitore e Cristo, ne “I fratelli Karamàzov” di Dostoevskij?
Forse sarebbe sufficiente trovare un equilibrio tra la necessità di risolvere le storture del mondo e la propria felicità, calibrando lo sforzo, le aspettative, l’importanza della felicità e della giustizia sociale.
Forse. Ma forse è anche molto difficile se non impossibile (per questo ho deciso di definirlo dilemma).
Di certo è quello che hanno fatto (e stanno facendo) Virginio e Cinzia, una coppia di italiani che ho incontrato qui in Islanda. Terra in cui, un anno fa – dopo un viaggio rivelatore fatto qualche tempo prima nella terra del fuoco e del ghiaccio – hanno deciso di trasferirsi. Dalla provincia bergamasca alle distese dell’Islanda occidentale.
Li incontro a casa loro – ora una parte trasformata in guesthouse – a una ventina di chilometri da Borgarnes. Voglio ascoltare la loro storia e per questo sono qui. Tendenzialmente non mi appassionano particolarmente le storie di chi si trasferisce, dei cosiddetti cervelli in fuga, di chi cerca l’America altrove. Anche perché Virginio e Cinzia da un bel pezzo non hanno più vent’anni e chi è abituato a viaggiare impara in fretta che tutto il mondo è paese e dappertutto ci sono cervelli che restano, cervelli che vanno e cervelli che tornano.
Si chiama globalizzazione, e vedo in tutto ciò una certa naturalezza e una certa normalità. Ma questo Virginio e Cinzia non lo sanno, quindi appena li incontro sono schivi, si aspettano che sia interessato al loro miracolo, alla loro liberazione e a quella che molti definirebbero un’impresa eccezionale: liberarsi dal paese di Mafia Capitale, dalle diatribe parlamentari tra Brunetta e la Finocchiaro, dalla burocrazia che frenerebbe il progresso di questo paese (questo c’è in tutte le interviste ad italiani che vivono all’estero), dal tracollo morale etc. etc.; quando capiscono che invece non sono minimamente interessato alle ragioni esterne (ammesso che ce ne fossero) alla base del loro trasferimento, allora iniziamo a prendere confidenza.
Mi raccontano che Milli Vina era una casa che ospitava una residenza per persone affette da disturbi psicologici e psichiatrici, di proprietà di uno psicologo islandese che poi ha deciso di vendergliela. Nel frattempo fu anche una (poco invitante) guesthouse. Virginio e Cinzia l’hanno ristrutturata, riarredata, e ci hanno fatto uscire 12 posti letto, che affittano tutto l’anno ai visitatori di tutto il mondo che girano l’isola.
La sera ceniamo assieme al Fossatún un accogliente e ottimo ristorante sulla strada per Borgarnes, con Plokkfiskur, pane e burro Islandese e un bicchiere di Reyka, una vodka prodotta proprio a Borgarnes, per concludere.
A tavola parliamo molto delle nostre vite e mi accorgo che in quello che mi raccontano c’è poco dell’Islanda.
La felicità, d’altronde, non è connessa ad alcun sistema GPS. Accade, dopo tanto sforzo e dopo tanto viaggiare. Ma nel loro caso non è assolutamente legata a questo paese: “Il lavoro andava bene, in Italia, ma non è questo il fatto”, mi racconta Virginio: “Volevamo cambiare, tutto qui”.
E così hanno deciso di attuarlo proprio in Islanda, quel cambiamento. Non scappano da nulla, ed è questo che mi affascina della loro storia, ma cercano una serenità che “solo la vita a contatto con la natura ti sa dare”, mi dice Cinzia. Cinzia ha imparato l’inglese apposta e sta studiando l’islandese, una delle lingue più complesse (e meno parlate) al mondo.
Virginio ha la virtù di San Francesco d’Assisi e con il suo accento bergamasco riesce a farsi capire dagli islandesi. Forse parla la lingua dell’empatia, della gentilezza. Ed infatti, tutti lo capiscono.
La sera mi addormento pensando che avrei voluto passare più giorni con loro, perché la loro serenità è contagiosa.
La mattina successiva mi sveglio pensando alla fortuna che ho avuto nell’incontrarli e ai chilometri che mi aspettano. Ci beviamo l’ultimo caffè e ci salutiamo. “L’ultima sigaretta?”, chiedo a Virginio, che accetta l’invito. Il vento soffia forte e accarezza i cespugli dei campi infiniti attorno a Milli Vina, disegnando ogni volta figure differenti sulle colline. Osservo il nulla mentre penso al diritto che ogni uomo dovrebbe avere, di provare quello che sto provando io in questo viaggio.
Il passo verso il dilemma felicità-giustizia è breve, così mentre a 15 km/h percorro il tratto di strada sterrata per abbandonare la fattoria penso a questo angolo di mondo, lontano da tutto e da tutti, da cui si vede il sole di notte e le stelle di giorno; e mi chiedo se sia più rivoluzionaria la loro scelta o quella di chi decide di combattere, di restare; che la serenità è contagiosa, tanto quanto la frustrazione.
Ed ora mi sento come un atleta che ha superato il record del mondo, perché ho visto che la felicità esiste davvero e che è molto più politica di quanto si possa pensare.
Perché, ora, non è più affare soltanto loro. Ed è necessaria ad accorgersi della bellezza, del senso della nostra vita in questo mondo. Matematicamente oggi abbiamo due esseri umani in più, tra l’esercito dei felici. Tutt’altro che egoisti, individualisti e disinteressati. Ma che hanno deciso di partire dal proprio mondo, per cambiare quello di tutti gli altri.
Pur non facendo nulla di speciale e di eroico, hanno seminato positività. I mali del mondo continueranno ad esistere, ma forse non è del tutto colpa nostra. Anzi, mia. Ma nel frattempo non posso permettermi di buttare l’unica vita che ho. È il primato della vita e non per forza va a discapito degli altri.
Il sogno di Virginio e Cinzia non ha calpestato il sogno di nessun altro. Anzi, forse aiuterà persino altre persone a trovare il coraggio di cambiare, a proprio modo, partendo dalle proprie specificità e dalla propria biografia, la propria vita. Ed è questo il lato profondamente politico ed inesplorato della felicità, troppo spesso confusa con l’appagamento economico, la comodità ed il benessere individuale.
Prendo la strada per Reykjavik e lo stereo in modalità shuffle manda Niccolò Fabi, talvolta le canzoni sanno essere puntuali come poche altre cose nella vita:
Lascio andare le valigie
I mobili antichi
Le sentinelle armate in garritta
A ogni mia cosa trafitta
Lascio andare il destino
Tutti i miei attaccamenti
I diplomi appesi in salotto
Il coltello tra i denti
[…] Lascio andare mio padre e mia madre
E le loro paure
Per ogni tipo di viaggio
Meglio avere un bagaglio leggero
[…] La salvezza non si controlla
Vince chi molla.
Penso che a volte a mostrare le vene e i nervi, si vince. E che quella vittoria porti con se per forza di cose una serie di rinunce: combattere i mali del mondo in primis. Quelli sì che, a volte, non sono altro che bagagli impossibili da portare, il cui senso è ricordarci che stiamo andando per la strada giusta – solo perchè stiamo soffrendo – e che abbiamo tutto il necessario in caso di bisogno.
Ed il risultato è che a metà strada dobbiamo fermarci, sfiniti e ammalati di dolore, per accorgerci che tutto quel peso non serviva, ne a noi ma nemmeno agli altri; e che un esercito di uomini leggeri, che però sanno dove andare, è forse ancora più rivoluzionario. Forse. Appunto.
Il dilemma non è risolto, per fortuna. Ma occorre scegliere, e cogliere la differenza, tra la libertà e la liberazione. A volte, forse, vince (persino) chi molla.