La scultura di Pino Pascali, dallo sbeffeggio alla guerra a un’umanità combattente che si dissolve in una risata dissacrante come tributo alla libertà
Di Giusi Affronti
Torino, 1966 – Alla Galleria Gian Enzo Sperone si gioca ai soldatini, come in un playground del sistema dell’arte. La vernice scopre il gioco maschio della guerra, un’avventura della fantasia, un happening agito da “finte sculture”. A ben guardare, però, quello delle Armi di Pino Pascali è un flashmob pacifista.
Le mitragliatrici, i lanciamissili, i cannoni, le contraeree e le bombe altro non sono che giocattoloni che l’artista costruisce con estro da bricoleur. Lasciata da parte la meccanica e l’ingegneria, assembla pezzi di scarto, rifiuti e rottami di officina, pneumatici e vecchi carburatori Fiat, ferri da lavoro e tubi idraulici. Le Armi sono oggetti identici ai loro modelli bellici, anche nella scelta della vernice color caki-oliva dell’esercito. Queste, però, non esplodono e non sparano; è un armamentario che non funziona, non minaccia e non uccide.
A Pino Pascali, figlio di un funzionario di polizia di Polignano a Mare, le divise e le armi di ordinanza sono sempre piaciute: cresciuto durante la Seconda Guerra Mondiale, da bambino un fagiolo diventa presto una pallottola e un bastone di scopa si trasforma in un fucile. Durante i bombardamenti di Tirana del 1940-41, dove vive insieme alla famiglia, incoraggia con la sua pistola-giocattolo le batterie antiaeree italiane. Lo scenario internazionale, nel 1966, invece, è quello violento della guerra del Vietnam.
Pino Pascali adulto gioca in maniera canzonatoria con la guerra, la sbeffeggia con sarcasmo: si fa fotografare, vestito da soldato, come fosse un surfista in groppa al suo Cannone Bella Ciao, dalla canzone partigiana della Resistenza.
Un’azione da teppista che sdrammatizza l’autorevolezza della tradizione scultorea e sabota le coordinate ambientali e linguistiche della galleria. “Insegna a ballare lo shake” ai suoi colleghi dell’Arte Povera, “duri come merluzzi”, e introduce finta artiglieria nella storia dell’arte del XX secolo.
Nato a Bari nel 1935, Pino Pascali muore tragicamente all’età di trentatré anni in un incidente di motocicletta, il suo gioco preferito. Scultore e performer, per tirare a campare, lavora come illustratore e scenografo per Carosello e altre trasmissioni Rai.
La Puglia c’è nelle pieghe della cultura meridionale che si porta addosso: il Mare, la Terra, i Campi e i riti dell’agricoltura; l’essenzialità monumentale del Romanico e l’invenzione dei bestiari medievali delle sue chiese. Roma, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti e vive, c’è nella fascinazione del classicismo e nell’incontro con le esperienze artistiche internazionali contemporanee (Pop Art, Minimal Art, Land Art e Performance Art).
Pino Pascali svuota la scultura del senso del pieno, del peso, del volume e della verticalità.
Introduce il linguaggio, la parola, il titolo, la modularità e la variazione: tutto è ogni volta ricollocabile e reinterpretabile, come accade in uno spettacolo del Living Theatre o di Billie Holiday. Ogni sera l’atmosfera è differente.
Acquista i materiali per le sue sculture in grandi magazzini o in negozi di articoli casalinghi: tela, lana d’acciaio, rafia, pagliette di ferro, setola acrilica e pelliccia di peluche. La sua ricerca è bulimica: Pino Pascali cambia pelle continuamente. I cicli si susseguono con vorace novità e rottura di linguaggi, iconografie e sperimentazioni spaziali in una carriera artistica della durata di una meteora (1964-1968). Le Rovine, i Teatrini, le Armi, le Rappresentazioni della Natura, gli Animali, i Bachi da Setola, gli attrezzi da lavoro e le carte da gioco. Una produzione scultorea da capogiro. È così uomo del suo tempo da morirci dentro.
Pino Pascali non partecipa alle manifestazioni di piazza, è tutt’altro che un artista militante: nella sua scultura, non c’è traccia di utopia né di denuncia politica. L’unica libertà a cui crede è quella individuale, la libertà incondizionata della ricerca personale di artista.
Quella che persegue è una dissacrazione critica, in nome del gioco e dello straniamento ironico, senza la retorica dell’ideologia. L’arte per l’arte. O, meglio, l’arte per il gioco della scultura.
Il “mondo eroico infantile” – nelle sue parole – di Pascali è popolato da guerrieri e crociati, moschettieri e gangster, uomini delle caverne e soldati: tutti possiedono sempre un’arma. Costruisce, attraverso la grafica e la scultura, un’umanità combattente, apparentemente sull’orlo della scontro armato, in un’atmosfera di belligeranza permanente. L’arsenale dell’artista pugliese, però, svapora nel fragore di una risata di un scapigliato del sud.
L’anima di Pino Pascali è in quel ritratto fotografico degli anni Sessanta di Marcello Colitti dove, all’interno del suo studio-abitazione di Roma, sembra minacciare chi guarda con un arnese da cucina. I capelli ricci, il sorriso caldo e un fare beffardo da bambino che gioca goffamente a imitare il cattivo ex marine del Vietnam Travis Bickle, in“Taxi Driver”.