Dopo l’incidente legato al veto della Vallonia, L’accordo tra Canada e Ue è stato approvato il 30 ottobre. Un’analisi dei nodi critici di un accordo promettente solo sulla carta
Di Clara Capelli
Raramente il Canada e il Belgio sono argomenti di appassionati dibattiti, ma gli eventi dell’ultimo mese hanno decisamente preso tutti alla sprovvista.
Il 18 ottobre l’Unione Europea e il Canada si sono infiammati di indignazione perché l’assemblea legislativa della piccola Vallonia (3,6 milioni di abitanti) aveva posto il veto alla firma dell’accordo di liberalizzazione economica noto come CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement). A preoccupare la Vallonia erano, fra le altre cose, i rischi che la concorrenza dei prodotti agricoli canadesi avrebbe potuto comportare.
Le reazioni a questo “gran rifiuto” sono state decisamente aspre, facendo improvvisamente scoprire a gran parte dell’opinione pubblica l’esistenza del CETA, molto spesso trascurato rispetto all’assai più celebre – e ora agonizzante – TTIP tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Il ministro canadese per il commercio internazionale Christina Alexandra Freeland è sbottata di fronte al voto vallone, inveendo contro l’Unione Europea, partner “impossibile” con cui fare affari. Persino il sempre sorridente Premier Justin Trudeau aveva tradito segni di stizza.
Dall’altra parte, l’Europa si è divisa tra sostenitori e oppositori del libero mercato, tra chi parlava di importanti occasioni sprecate e di miopia europea e chi invece considerava l’intrinseca disfunzionalità dell’Unione Europea – per cui una piccola autonomia locale può bloccare procedure di approvazione europee – come una sorta di benefico scudo protettivo rispetto all’introduzione di ulteriori misure di marca neoliberale.
Il 30 ottobre, con tre giorni di ritardo rispetto alla data inizialmente stabilita, il CETA è stato firmato senza troppo baccano, grazie al via libera ricevuto all’ultimo minuto dalla Vallonia a seguito di una serie di garanzie promesse al suo settore agricolo.
Ora il trattato dovrà essere ratificato dal Canada così come dai parlamenti nazionali e regionali degli Stati membri dell’Unione Europea, un processo che molti vedono come tutt’altro che facile dopo la piccola bufera scatenata dalla Vallonia.
Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha commentato la firma del CETA parlando di “segnali contro il nazionalismo”: promuovere il libero mercato sarebbe dunque una strategia di apertura alla crescita economica necessaria per fare da contraltare a nazionalismi xenofobi e populismi che stanno guadagnando crescenti consensi, in Europa come nel resto del mondo. Il voto della Vallonia sarebbe pertanto da leggere come un tentativo di assecondare, anche in modo poco coraggioso, le pulsioni più retrive della società europea. Chi ha invece salutato con favore il veto vallone ritiene che l’introduzione del CETA servirebbe solo per gli interessi delle grandi multinazionali, con seri rischi in materia di tutele di diritti e di qualità dei prodotti; una mossa, quindi, che rischierebbe di approfondire certe sofferenze socio-economiche, offrendo terreno fertile proprio a quei partiti populisti che i sostenitori della liberalizzazione economica si propongono di sconfiggere a colpi di efficienza e dinamismo.
Il CETA è stato negoziato – a porte chiuse, così come i più noti TTIP e TPP – per cinque anni tra il 2009 e il 2014, quando è stato reso pubblico il testo definitivo. In buona sostanza, l’accordo prevede l’eliminazione di circa il 98% dei dazi doganali su beni agricoli e industriali nei prossimi sette anni (diverse barriere non tariffare, ossia legate alla definizione di standard qualitativi dei prodotti, rimarranno invece in vigore); l’introduzione di misure di cooperazione per l’armonizzazione della legislazione sul copyright e su altri tipi di regolamentazione tecnica; una maggiore liberalizzazione degli investimenti nei settori della finanza, delle telecomunicazioni, dell’energia e del trasporto marittimo, con possibilità da ambo le parti di partecipare a appalti pubblici.
Niente di nuovo, sia i temi sia le clausole sono fondamentalmente simili a quelle che si trovano nei già citati trattati regionali, espressione di un mondo in cui – moltiplicatisi gli attori economici di peso e quindi gli interessi da conciliare – il libero mercato non passa più per il WTO, ma attraverso macro-accordi fra poli di interesse.
Come altri testi, il CETA prevede anche l’assai controverso meccanismo dell’Investor-State Dispute Settlement (ISDS), per cui le dispute tra investitori e stati vengono regolamentati attraverso arbitrato internazionale.
Le critiche principali rivolte a tale meccanismo si concentrano sul fatto che esso limiterebbe di fatto il diritto di uno stato sovrano di legiferare se in contraddizione con la logica del profitto dell’investitore (straniero, perché i rapporti economici con gli investitori privati continuerebbero a essere disciplinati dal “meno snello” diritto nazionale), mentre lo stesso tipo di garanzie non sarebbero offerte né ai consumatori né ai lavoratori. Va comunque detto che le pressioni esercitate negli ultimi anni hanno permesso di apportare alcune innovazioni a questo dispositivo che dovrebbero assicurare maggiori tutele ad ambo le parti coinvolte, con l’istituzione di un comitato permanente che nomina una lista di quindici esperti (cinque da Paesi UE, cinque canadesi e cinque da Paesi terzi) chiamati a rotazione a pronunciarsi su eventuali dispute.
Riserve e critiche verso il CETA sono anche legate alla fase di stallo – se non addirittura di non dichiarato fallimento – in cui versa il suo fratello maggiore, il TTIP. Attraverso il CETA le grandi compagnie statunitensi – legate al Canada attraverso il NAFTA e il TPP (tra Paesi del Pacifico) – potrebbero aprirsi un passaggio per il mercato europeo anche senza appoggiarsi a un trattato USA-UE. Ciò che è importante rilevare, in ogni caso, è che – al di là delle questioni commerciali, importanti ma da interpretare in un contesto economico di diffusa deindustrializzazione – il cuore di questi macro-accordi risiede piuttosto nella ricerca di possibilità di investimento nei settori dei servizi in una fase di crisi economica strutturale (altro importante accordo in fase di negoziazione è infatti il TiSA, Trade in Services Agreement, fra 23 attori in tutto il mondo), con società in cerca di strumenti per guadagnarsi fette di mercato a spese dei competitor da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico.
Pur ammettendo che il CETA possa generare dei benefici economici, le questioni cruciali – per tornare alla Vallonia e alla pietra dello scandalo – sono dove questi vantaggi saranno realizzati, chi se ne approprierà e chi ci perderà. Negli ultimi giorni si è scoperto all’improvviso che l’Unione Europea è il secondo partner commerciale del Canada: dall’altra parte, il Canada, divenuto da un giorno con l’altro imprescindibile attore economico, è il dodicesimo partner commerciale dell’Unione Europea.
Sulla carta, il CETA sembra essere un’occasione imperdibile per l’Unione Europea. Se solo l’Unione Europea fosse davvero un’unione a tutti gli effetti.
Un’analisi più approfondita dei dati mostra infatti che il Canada fa primariamente affari con Regno Unito (la cui posizione di Paese membro UE è attualmente in fase di discussione), Paesi Bassi, Germania e Francia. Sono questi Paesi i partner chiave, non l’Unione Europea. E in assenza di un’unione fiscale, inoltre, diventa complesso comprendere come il CETA possa essere un’opportunità di sviluppo per le economie UE “periferiche” o addirittura per le regioni come la Vallonia. Spiegazioni a riguardo non sono state fornite. Seguendo lo stesso ragionamento e scendendo nel dettaglio dell’analisi, occorre domandarsi che tipo di settori (e localizzati dove, di nuovo) beneficeranno di tale accordo, perché aprire un mercato all’export di vino mediterraneo non è economicamente comparabile con l’apertura dei settori della logistica o addirittura dell’energia. Inutile pertanto porre domande su come i benefici sarebbero redistribuiti o come le perdite sarebbero compensate.
Il voto della Vallonia potrebbe essere visto come stolido ostruzionismo di chi rifiuta il “progresso”, ma quando le ragioni a sostegno sono immancabilmente limitate a millantati “vantaggi generalizzati” – spesso sulla base di simulazioni fondate su modelli dalle ipotesi a dir poco eroiche – diventa difficile credere che un simile trattato possa davvero fare gli interessi di tutti. Se i trattati commerciali come il CETA continueranno a guardare solo alla promozione del business senza curarsi degli effetti redistributivi tra capitale e salari né tanto meno dei rapporti tra centri e periferie, veti e manifestazioni continueranno: non come segno di arretratezza o miopia, ma come espressione di una comprensibile richiesta affinché la politica economica internazionale sia davvero funzionale al perseguimento di un benessere quanto più largamente condiviso.
A cominciare, che piaccia o meno, dagli agricoltori valloni di cui solo pochi giorni prima ignoravamo l’esistenza.
(Questo articolo rappresenta
il punto di vista dell’autrice,
espresso a titolo personale)