testo e video di Tano Siracusa
Una città è anche un sistema visivo, un sistema mobile di prospettive e di vedute che si apre a chi la abita e la attraversa. La modernità ha introdotto nello spazio urbano modalità di spostamento (di scorrimento dei suoi contesti, delle sue quinte) prima inesistenti e impensabili, mentre la dismisura spaziale dei moderni agglomerati urbani e l’emergenza climatica hanno reso centrale la questione della mobilità.
C’è un versante della modernità, quello che ha dominato i primi due secoli successivi alla rivoluzione industriale, che si attarda all’interno di una contemporaneità fratturata, di nuovo orizzonte consapevole della insostenibilità, non solo energetica, del modello novecentesco e tuttora invasa dalle sue forme.
Associare la modernità al trasporto su gomma, identificare il trasporto su gomma con l’uso privato del mezzo di trasporto, ritenere l’uso privato dell’automobile indispensabile per spostarsi in città anche per percorrere brevi distanze, è uno dei principali tratti del paesaggio del malessere che la tarda modernità stessa produce all’interno della nuova.
In larga misura questo versante coincide con quello meridionale, con il sud del mondo, dove il panorama è quasi sempre segnato da un abusivismo diffuso e capillare, dalla mancata proiezione del cittadino nello spazio pubblico se non per finalità e interessi personali, dalle solitudini massificate, seriali, incattivite, dal banditismo organizzato e inclusivo. E da un uso abnorme e fuori controllo dell’automobile. Non tutto il sud, neppure in Italia. Ma in Italia, da Roma a Catania, la centralità dell’automobile ha prodotto distorsioni profonde negli assetti urbanistici, un consumo insensato e inutile del territorio, ha peggiorato, in alcune città in modo allarmante, la qualità dell’aria, ha allungato le distanze e i tempi di percorrenza accrescendo continuamente il costo complessivo del trasporto.
“A Catania guidano come dei pazzi, uguale che a Città del Messico”, diceva alla radio in questi giorni uno scrittore messicano, affascinato dal nostro traffico automobilistico e dal nostro vulcano.
Oltre quel confine, oltre quella incerta linea delle palme, la modernità offre ormai un panorama diverso: spazi ampi, molto verdi e chiusi al traffico, dove spesso convergono i negozi delle grandi firme, il turismo più ricco, piste per ciclisti che i pedoni si guardano bene dall’invadere, molto pattinaggio, metropolitana capillare, parcheggi sotterranei, ascensori e scale mobili per superare i dislivelli, trasporto pubblico su gomma comodo e puntuale, tutto a misura dei portatori di handicap.
Il traffico automobilistico scorre sulle arterie viarie più ampie, dove comunque i marciapiedi sono larghi, spesso alberati, attutito e distante, filtrato dalle numerose e convenienti alternative. Non ultima quella di camminare in un contesto urbano gradevole, arredato, non rumoroso.
Ma la linea del sud è anche frastagliata. Quel modello di mobilità urbana è presente infatti almeno in una grande città mediterranea, Barcelona. Una città dove le distanze sono notevoli e dove l’uso dell’automobile non è necessario né conveniente.
La città si lascia attraversare con facilità, le sue quinte così diverse e tuttavia così felicemente intonate fra loro, scorrono con una velocità, uno sguardo facili da variare, da quello lento del pedone a quello fluido del ciclista, a quello rialzato e veloce dell’autobus, fino allo sguardo immobile, fulmineo e cieco della metropolitana.
Barcelona è un laboratorio di sperimentazione urbanistica, e sembra avere affrontato il tema della mobilità con una idea di città percorribile, fruibile in tempi più o meno veloci, dove la modernità innerva e spesso abbellisce spazi urbani densi di storia, di passato, di emergenze architettoniche anche contemporanee che convogliano i flussi della folla.
Non sempre tuttavia gli interventi urbanistici, a volte azzardati, fantasiosi, sofisticati, incontrano il consenso generale. Anche l’urbanistica di qualità, orientata a modellare uno spazio godibile, confortevole, ecologicamente sano, fruibile da tutte le fasce di età, può avere per alcuni dei costi (in certi casi previsti, perché facilmente prevedibili).
Uno degli interventi urbanistici più recenti e di grande impatto a Barcelona, dalle parti della stazione Sants, è una lunga passeggiata sopraelevata, fiancheggiata dai piani alti dei palazzi fra i quali si allunga per circa un chilometro, offrendosi come inusuale prospettiva visiva dall’alto. La sensazione che si prova scivolando sui pattini o su una bici potrebbe approssimare quella del gabbiano in volo. Ascensori e scale mobili salgono e scendono a sud verso un vasto spazio pedonalizzato in fondo al quale si vedono i viali aperti al traffico veicolare.
Tutto magnifico, tranne che per i proprietari degli appartamenti a livello con il grande Paseo, oggetto di sguardi difficilmente evitabili, soprattutto in un tratto dove gli appartamenti non sono distanti più di dieci metri dalla ringhiera dell’aerea passeggiata.
I proprietari espongono infuriati cartelli di protesta sui balconi con le serrande e imposte chiuse. Dove è finita la nostra intimità? Comincia lo spettacolo, scrivono.
Si tratta di costi evitabili e perciò più ingiusti. Evitabili proprio perché la progettazione urbanistica è il contrario del mimetismo competitivo della massa seriale, quella che incolla il traffico e avvelena l’aria, spreca energia, tempo, spazio, che costruisce una palazzina davanti l’altra, ogni fila a rubare il sole alla precedente, ogni automobilista a sottrarre spazio all’altro.
A Barcelona la luce a novembre è straordinaria, ma i proprietari di quelle abitazioni tengono le imposte e le serrande chiuse, alla loro porzione di luce quotidiana hanno deciso di rinunciare. In una città così felicemente offerta agli sguardi quella protesta è un arresto, un vero blocco visivo.