di Antonio Marafioti
L’ultima volta è stata quella del 2011. Era il 13 febbraio quando donne provenienti da tutte le parti d’Italia si incontravano nelle piazze di Roma e Milano al grido di “Se non ora quando?”. In quella domanda era racchiuso anche il nome del collettivo che quel giorno riunì centinaia di migliaia di partecipanti nei cortei a difesa della dignità della donna. Le cronache di quel tempo raccontano l’inizio della fine del governo Berlusconi quatēr, la cui credibilità era stata minata alle fondamenta dal cosiddetto scandalo Rubygate. Dopo il fermento mediatico provocato dalla pubblicazione delle prime intercettazioni fra l’allora premier e il suo nutrito gruppo di supporter femminili, la riflessione di una parte dell’informazione e di una grossa fetta dell’opinione pubblica ricominciava lentamente a riprendere – ma questa volta lo faceva su larga scala – un dibattito sulla figura della donna nella società italiana. Donna oggetto, donna merce sessuale, donna vittima. A riaprire il discorso era stata, ancor prima di allora, la grande manifestazione del 2006 organizzata dal gruppo “Usciamo dal Silenzio” sull’asse ereditario dell’esperienza settantottina. Quella volta si scese in piazza contro un’Italia che ingranava un’anacronistica retromarcia sulla strada del progresso civile. Quella volta migliaia di persone, donne e uomini, tornarono a manifestare per quel sacrosanto diritto all’aborto che la revisione alla legge 194 rischiava di compromettere pesantemente. La voce contro la miopia del Legislatore era di nuovo alta e se il colore sostituiva il bianco e nero nelle foto ricordo della giornata, resistenti al tempo erano invece le parole usate nei cori e sugli striscioni: “corpo”, “utero”, “scelta”, “rispetto”.
È quanto avverrà domani, ancora una volta, per le strade della capitale in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. A partire dalle 14 il corteo della manifestazione si muoverà da Piazza Esedra alla volta di Piazza San Giovanni. Questa volta la parola, la frase, d’ordine è “Non una di meno”. La pratica da estirpare è la violenza di genere: un ombrello nero sotto il quale nel nostro paese, ogni anno, centinaia di donne vengono uccise e altre migliaia sono vittime di violenze e abusi.
“Vogliamo che sabato 26 novembre Roma sia attraversata da un corteo che porti tutte noi a gridare la nostra rabbia e rivendicare la nostra voglia di autodeterminazione”, scrivono nel loro appello le femministe di Nudm. “Non accettiamo più – proseguono – che la violenza condannata a parole venga più che tollerata nei fatti. Non c’è nessuno stato d’eccezione o di emergenza: il femminicidio è solo l’estrema conseguenza della cultura che lo alimenta e lo giustifica. È una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata. La libertà delle donne è sempre più sotto attacco, qualsiasi scelta è continuamente giudicata e ostacolata”.
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L’urgenza della riflessione è stata amplificata dai i numeri diramati ieri dall’Eures nel suo ultimo rapporto sulle “Caratteristiche, dinamiche e profili di rischio del femminicidio in Italia”.
Solo nei primi dieci mesi del 2016, scrive l’istituto di ricerca, in Italia sono state uccise 116 donne. Più di una ogni tre giorni. Tra il 2000 – anno record con 199 donne uccise – e il 2016, le donne vittime di omicidio in Italia sono state oltre 2800.
Una cifra che, sostengono i ricercatori, permette di connotare il fenomeno come avente vero e proprio “carattere sociale”. Il luogo più pericoloso? Anche nel 2016 è rappresentato dalla famiglia (con 88 donne uccise, pari al 75,9% del totale), che si conferma essere il principale contesto delittuoso. E poi ci sono i moventi, fra i quali spiccano quello passionale (29,3%) e quello della conflittualità quotidiana (31,7%) che spiegherebbe l’alta percentuale dei delitti maturati in ambito familiare. Sono numeri che nella loro fredda perentorietà raccontano altro. Dietro di loro ci sono storie, vite spezzate, drammi di violenza quotidiana che meritano, oggi come ieri, un’azione concreta, e soprattutto condivisa, da parte della società e delle varie anime, organizzative e istituzionali, che la rappresentano.
La linea organizzativa di questi mesi di preparazione è stata quella del massimo coinvolgimento. Non solo perché, come sempre, l’unione fa la forza, ma anche e soprattutto perché la partecipazione genera consapevolezza e risposte immediate. Ed è per questo che la vigilia sembra promettere bene grazie alla spontanea adesione di oltre settanta fra organizzazioni, movimenti, collettivi, associazioni di varia natura. Fra di loro ci sono anche le “Cattive Maestre”, gruppo docente che da un anno si batte contro la riforma della Buona Scuola voluta dal governo Renzi e convertita nella Legge 107. La scuola con le donne, perché formata in maggior parte dalle donne. Dall’82 percento, per la precisione. E però l’Istruzione è ancora concettualmente maschile. La storia stessa, ricordano le insegnanti, è “ancora la storia dell’uomo”. E allora la proposta è quella di portare “la storia delle donne nei libri di testo”. E ancora: “Basta con il ‘maschile universale’! Immaginiamo a scuola una lingua per tutti e tutte”. Si discuterà anche di questo, domenica 27 novembre, nei tavoli tematici organizzati da “Non una di meno” presso la Facoltà di Psicologia dell’Università “La Sapienza”. Fra gli argomenti in programma ci sono quello dell’educazione alle differenze, dell’accesso al lavoro, del femminismo migrante e del sessismo nei movimenti.
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