Sui tetti, il parkour, e la speranza
di Alessia Carnevale, foto di Andrea Saulle
Quella sera A. decide di portarmi a spasso sui tetti di Gerusalemme. Vi cammina con assoluta naturalezza, ne conosce ogni angolo, mi spiega dove siamo in corrispondenza con la città “terrestre”, sopra quale casa, sopra quale mercato, vicino a quale chiesa o palazzo.
Io resto incantata a metà; per l’altra spero che non arrivi qualche sbirro a romperci le scatole. A. ha vissuto in Palestina per parecchi mesi, conosce a memoria i vicoli e le strade di Gerusalemme.
Biondo, con quegli occhi azzurri a palla un pò sporgenti, la faccia bianca, pare uscito dritto dritto da una colonia di ebrei polacchi. Chi potrebbe indovinare, qua in mezzo, che è invece un triestino anarchico mezzo sloveno venuto a fotografare manifestazioni, cariche della polizia, arte di strada, ragazzi che fanno parkour.
Studente di ebraico, alle manifestazioni fa finta di non conoscere la lingua del nemico per non rischiare di finire preso a mazzate dalla parte sbagliata.
Passeggiando sopra i tetti alla luce dei lampioni arancioni mi parla del movimento anarchico di (ebrei) israeliani che si batte contro l’occupazione e contro il muro, “Anarchists Against the Wall”. Mi parla delle cariche. Mi parla di quanto sia infame la polizia araba israeliana.
A. è rimasto un indomabile chiacchierone, mi riempie la testa di informazioni e di racconti, con la sua sempre marcatissima parlata nordestina, strascicando vocali spalancate, masticando consonanti appassionate. Non è cambiato di una virgola, mi pare di essere tornati tali e quali a qualche anno fa in piazza San Domenico, fuori all’Orientale, a discutere di fatti vari.
E invece eccolo qua nel suo nuovo habitat, animale indipendente ma non solitario, che si muove scaltro come un gatto nei grovigli della città e della sua storia.
Certo che sorpresa ritrovarmelo così per caso in un vicolo dietro la porta di Giaffa, seduto fuori ad un caffè con la sua solita sigaretta di tabacco tra le dita, una maglietta insolitamente chiara, nel sole giallo che supera di sbieco i muri di pietra chiara della medina. Io cercavo un ostello dove passare la notte. Ci abbracciamo sorpresi con tutto il trasporto che merita l’occasione. Mi dà un po’ di dritte su dove dormire, ci promettiamo di ribeccarci in serata.
Tutta la giornata penso a quanto la dice lunga questo incontro casuale sulle nostre vite: quanto scombinati, quanto disordinati devono essere i nostri cammini, da farci incrociare qui, nel cuore straziato della Palestina. La sera abbandono i miei compagni di viaggio e lo richiamo.
Sono curiosa di vedere la città con qualcuno che ne conosce storie e segreti, che mi dispiega angoli a cui non potrei mai accedere da sola, una nuova arrivata di passaggio che non ha molto tempo per gustarsi a fondo la città, per contemplarla dagli angoli morti, per rigirarsela fra le mani prima di scartarla lentamente, come un dono atteso da tempo, rimandando il più possibile il momento della scoperta tanto è dolce il pensiero di sapere che qualcosa che hai lungamente desiderato è finalmente davanti ai tuoi occhi.
Usciamo dalla medina, andiamo a mangiare un economicissimo shewerma in un chiosco con le luci al neon. Poi mi porta un po’ in giro in certi quartieri di Gerusalemme ovest abitati da arabi israeliani, mi spiega, in prevalenza marocchini, stabilitisi qui da decenni e destinati a restare per sempre immigrati.
Mi parla di queste e altre storie, mi parla di occupazioni di case, di sfratti, di demolizioni, mi parla di lunghe serate a bere tè e fumare shisha. Mi parla di come l’abbiano fermato all’aeroporto di Tel Aviv, di come gli hanno fatto chiudere il sito internet dove pubblicava le sue foto.
Di come, infine, ne ha aperto un altro con un falso nome, e di come nonostante tutto, a distanza di qualche anno, lo abbiano fatto rientrare in Palestina. È stato fortunato. A molti stranieri è negato il permesso di rientrare per molto meno. Oltre ai milioni di palestinesi della diaspora, lo stato di Israele continua a fare esuli, tra i tanti attivisti, giornalisti, semplici visitatori che hanno trovato in Palestina una seconda patria e a cui è negato, nel loro piccolo, un “diritto al ritorno”.
Alla fine ci dirigiamo in Jaffa Street e ci infiliamo in un locale un poco underground, musica punk-rock, genere suo. Gli chiedo come mai, uno come te, si mette a frequentare i bar dei fighetti israeliani, lo sfotto. “Anche se vivi a Gerusalemme a un certo punto hai bisogno di normalità”, mi spiega. “Anche se vivi a Gerusalemme non puoi stare tutto il tempo a chiedere a chiunque frequenti qual è la sua posizione in merito all’occupazione, a sondare il suo livello di responsabilità e coscienza. All’inizio sì, indagavo, facevo domande, cercavo sempre di spingere la discussione sulla politica. Poi capisci che anche chi vive a Gerusalemme ha diritto ad avere una vita normale, a parlare di cose normali, come gente normale.”
Beviamo parecchi bicchieri di Arak, o forse di vodka, chi si ricorda. Mi presenta gente con cui condivide passioni musicali, concerti, radio, cose. Parliamo. Passiamo una serata normale, a Gerusalemme.
Il giorno dopo devo rientrare a Birzeit, dove alloggio durante il mio breve soggiorno in Palestina. A. mi raccomanda di non partire troppo tardi, in quanto – informazione che avevo completamente ignorato—sarebbe stata la “Lailat-al qadr”, la Notte del Destino, e sicuramente ci sarebbero stati ingorghi al check-point e molto probabilmente disordini e scontri, siccome lo Stato di Israele si ostina, proprio nel mese di Ramadan e nei giorni più sacri per i musulmani come quello dell’indomani, di applicare assurde restrizioni ai fedeli che si recano nella loro città santa per pregare.
Lui sarebbe rimasto lì appostato fuori alla medina nei principali punti caldi della città con la sua fotocamera pronto ad unirsi ad eventuali manifestazioni. Gli raccomando di starsi attento, non posso non farlo.
Sono stata fortunata, ho passato il check-point di Qalandya senza trovare né troppa fila né alcun casino, nonostante appunto il periodo caldo, la fine del mese di Ramadan. Ciò non toglie che quando passo attraverso quegli interminabili corridoi-gabbia, larghi appena a contenere due persone di piccola taglia, il senso di oppressione, di nervosismo, di rabbia repressa che provo è elevato. Avverto il peso, la consistenza e il calore di parole ed aggettivi come “disumanizzante”, “repressione”, “occupazione”.
Le posso toccare, respirare, hanno il colore grigio di queste sbarre di ferro, sono calde e afose come questo giorno d’estate, hanno sguardi scuri, spenti, che non si fissano su niente. Nonostante la calma apparente, nonostante le decine di donne e uomini palestinesi che aspettano dimessi e senza fretta il proprio turno, nonostante qualcuno chiacchieri e sorrida come se si trovasse ad una qualunque fermata del tram, o in fila alle poste, la mia testa ronza di pensieri grigi: quanto a lungo può resistere l’essere umano, accettare, quanto in basso può sprofondare, a quali condizioni si può ostinare a continuare a condurre una vita normale.
Perché quando attraverso il check-point nella mia testa la Palestina non ha più l’immagine di una bandiera che sventola al cielo, non ha più lo sguardo fiero del combattente, ma ha il volto cupo di un’attesa umiliante.
Una vita normale: restare ogni giorno per ore in una gabbia in attesa che un soldato ti accordi o ti neghi il permesso di entrare nella tua terra, nella città in cui lavori, in cui hai famiglia, in cui devi andare in ospedale, o a pregare.
È nei luoghi come questi, ai check-point, a ridosso del muro a Betlemme, nelle strade assediate di Hebron, che la diabolica macchina israeliana di repressione, di controllo e di punizione, mi si dispiega davanti lasciandomi senza fiato. Lasciandomi percepire il senso dell’atto nudo e terribile dell’essere umano che si rivolta prescindendo da qualunque possibilità di vittoria o di redenzione.
È il luglio 2015, dopo pochi mesi scatterà quella che i giornali definiranno l’intifada dei coltelli.
Arriverò a Ramallah senza particolari problemi. Prima di prendere l’autobus però, faccio un’ultima visita a Gerusalemme ovest, la voglio vedere col giorno, Jaffa Street, pulita e ordinata, coi suoi negozi e caffè alla moda, con la linea del tram efficiente, i vialetti alberati e freschi. Vado anche al suq – o forse non dovrei chiamarlo così.
Al mercato di Mahane Yehuda, ampio, ordinato, quasi silenzioso, si vendono le stesse cose che si vendono sulle più caotiche bancarelle del quartiere arabo, così come su quelle di Nablus o di Ramallah. Supero ogni senso di colpa e mi spingo a compare una vaschetta di lebne condito con lo zaatar, che mi fa impazzire. Anche questo è uguale a quello che mangio a Birzeit e ad Amman. Squisito. Lo accompagno con del pane arabo – o forse non dovrei chiamarlo così.
Torno a Gerusalemme dopo qualche giorno. Riattraverso il check-point di Qalandya, ancora una volta sorprendentemente calmo. A. non c’è, è andato non so dove in Cisgiordania a fare un workshop di non so cosa. Non l’ho più ribeccato da allora. Non so poi in quale punto caldo del mondo sia andato a cacciare storie.