La questione dell’ospitalità offerta ai profughi siriani in Libano è di grande attualità, ma troppo spesso appiattita dietro stereotipi di generosità o avidità che ignorano l’impatto e le agende delle organizzazioni umanitarie sul contesto socio-economico del Paese.
Di Estella Carpi
L’ospitalità offerta ai profughi in tempo di crisi è uno degli argomenti più affrontati nei media internazionali oggigiorno. Tuttavia, l’ospitalità viene raramente discussa come strategia umanitaria e politica, capace di spiegare le conseguenze di un conflitto conflitto e preservare la credibilità internazionale di attori politici e umanitari.
L’idea di creare “spazi di accoglienza”, abitati da sfollati a seguito di crisi d’emergenza, aiuta attori politici e agenzie umanitarie a mantenere un’immagine di responsabilità internazionale, e perseguire un ordine sociale consono alle loro agende.
Tuttavia, l’ospitalità intesa come strategia politico-retorica, anziché come mero fenomeno sociale, nulla vuol togliere agli sforzi locali tesi alla gestione di sfollamenti e reinsediamenti ciclici. Reinsediamenti che, difatti, raramente restano temporanei, nonostante il Libano non sia firmatario della Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del 1951 e resti quindi un paese di transito.
In Libano, il paese ospitante a più ridotta dimensione geografica e più alta intensità abitativa, tanti sono stati i tentativi di quantificare il fenomeno dell’ospitalità locale offerta ai rifugiati siriani; e pochi quelli tesi a comprendere la variegate condizioni economiche dei libanesi e rifugiati ospitanti. Inoltre, in quale forma avviene solitamente tale ospitalità? Nei limiti delle dimensioni geografiche del Libano, ben pochi spazi di ricostruzione autonoma sociale e politica sono stati resi disponibili ai profughi siriani che lasciavano una Siria torturata dalle violenze dalla primavera 2011.
Al centro dell’attenzione mediatica vi era l’accertare quante famiglie locali ospitassero i rifugiati gratuitamente, e quante tra queste, invece, venissero pagate da organizzazioni non governative e agenzie delle Nazioni Unite per accogliere le famiglie profughe. La strategia dell’ospitalità ha di fatto reso il controllo e la gestione della crisi umanitaria più fattibili. Ciononostante, le famiglie libanesi vengono sostenute finanziariamente per più anno al massimo, in linea con la politica governativa della “precarizzazione” della presenza dei rifugiati sul territorio libanese.
Specialmente a seguito del flusso di rifugiati siriani nei villaggi dell’Akkar (nord del Libano) a partire dal 2011, le narrazioni mediatiche del Libano ospitante hanno finito per stigmatizzare la generosità della popolazione locale sulla base di condizioni di per sé insostenibili.
La generosità degli ospitanti è stata infatti discussa come qualcosa di misurabile e intrinseco alla cultura locale, implicando un giudizio etico nei confronti delle popolazioni che, volenti o nolenti, si ritrovano a gestire cicliche crisi regionali. Così facendo, l’ospitalità, “consegnata” come un toolkit umanitario, ha poco tenuto di conto il comune bagaglio politico e culturale siro-libanese, che ben pre-esiste la crisi, così come le relazioni di potere di lunga data che legano l’un l’altro gli abitanti dell’Akkar.
Sin dalla primavera del 2011, le famiglie libanesi hanno iniziato a ospitare i rifugiati siriani in nome di legami di sangue, vecchie amicizie, favori personali, e valori culturali e religiosi.
Le comunità locali evidenziano la necessità di affittare pezzi di terra al fine di arginare la pressione demografica e la cronica carenza di servizi di base.
Rahma, nata e cresciuta in un villaggio Akkar, è la proprietaria della terra su cui la famiglia di Fatima, profuga siriana, ha costruito la sua tenda nell’ormai lontano 2011. Rahma mi mostra la sua casa, sottolineando le ambivalenze dell’interesse della comunità internazional – incarnate dalla presenza umanitaria in Akkar – la quale ha fatto fronte alle condizioni di vita di questa regione solo alla luce della crisi siriana:
“Conoscenze personali per ottenere un lavoro non sono necessarie solo ai siriani che vogliono accedere ad aiuti e servizi, ma anche ai libanesi come me. Non ho mai ottenuto nulla dal comune nè dalle ONG prima della guerra in Siria. Viviamo in una regione di cui nessuno si era mai preoccupato. Abitiamo da tempo vicino a questo appezzamento di terra, e ora dobbiamo affittarlo a prezzi più alti di prima. Che altro possiamo fare se non c’è lavoro né modo di espatriare come non-rifugiati?“.
Sapere se e quali ONG hanno fornito risorse per sostenere le famiglie ospitanti è diventato un ulteriore fattore determinante per valutare la moralità di queste famiglie locali. Ad esempio, una famiglia libanese in un villaggio dell’Akkar è stata vista come opportunista, poiché avrebbe cambiato le proprie opinioni politiche per trarre profitto dalle ONG: “Non ospita per motivi umanitari. Vuole solo arricchirsi e prendere soldi da paesi che non dovrebbero nemmeno essere qui“, ha commentato Lama riferendosi al suo vicino di casa che, finanziato da un’organizzazione kuwaitiana, ospita una famiglia siriana.
Gli stessi operatori umanitari hanno spesso sottolineato il limite di tale strategia dell’ospitalità locale. Sarah, che lavora per una ONG internazionale con sede in Akkar, ha affermato a tal riguardo:”Penso che non sia stata una buona mossa pagare le famiglie per ospitare i profughi siriani. Abbiamo semplicemente reso la dipendenza insostenibile, giacchè questa sistemazione, per rispettare le politiche governative, può durare solo un anno. Cosa pensiamo che facciano dopo? Cosa abbiamo cambiato in questo modo?”.
In Akkar, l’ospitalità costituisce un prodotto storico di legami di vecchia data fra siriani e libanesi. Allo stesso tempo, l’impossibilità economica di una famiglia ad ospitare i profughi, o la loro idoneità a ricevere denaro per accoglierli, è resa cartina di tornasole della moralità locale nelle narrazioni mediatiche.
La lotta disperata per la sopravvivenza economica dell’Akkar, che di gran lunga precede la crisi siriana, è stata raramente tenuta di conto, così come i nuovi vantaggi che i proprietari terrieri locali e le persone di status sociale più elevato hanno invece guadagnato con l’arrivo dei siriani in fuga da violenze e persecuzioni.
Lo schiacciante onere della crisi su una regione storicamente negletta tuttavia permane, come confermato da Walid, un cittadino dell’Akkar: “Solevamo empatizzare – mota‘atifiyyn – ma ora è diverso. Vogliamo solo sbarazzarci l’un dell’altro. Ora c’è solo tensione“.
Per di più, l’aumento dei prezzi di mercato e delle case, e lo sfruttamento della manodopera a basso costo, sono stati discussi alla luce del razzismo e superiorità morale locali nei confronti dei siriani, o in termini di vendetta libanese su lunghi anni di oppressione da parte del regime siriano degli Asad tra il 1976 e il 2005.
In questo scenario caratterizzato da narrazioni binarie – che oscillano dalla vittimizzazione all’implicito biasimo della società libanese verso i rifugiati siriani – storie quotidiane di coesistenza, molto più importanti, passano spesso inosservate.
In entrambi i casi, l’ospitalità è usata come discorso dominante sul reinsediamento dei profughi e la ricezione delle società classificate come “ospitanti”, trasmettendo un giudizio etico nei confronti dei residenti locali: l’avido Libano, o il Libano magnanimo. Ciò che passa ignorato è che l’avidità – anche qualora sia osservabile – non esclude gli stenti, essendone anzi uno dei suoi sintomi.
Come evidenziava la famosa controversia tra i pensatori Marcel Mauss e Thomas Hobbes, qualsiasi scambio sociale implica generosità interessata e reciprocità. L’ospitalità offerta ai profughi, finanziata dall’apparato umanitario internazionale, non ha di certo innestato solidarietà locale. Prima dell’arrivo delle agenzie umanitarie, molto più che mere espressioni di solidarietà abitavano l’Akkar. In uno stato scarsamente centralizzato, l’ospitalità è stata resa una conditio sine qua non per mantenere l’accesso umanitario ai profughi e l’ordine politico-sociale attraverso le comunità locali.
Se un detto popolare ci insegna che “L’ospite è come il pesce: inizia a puzzare dopo tre giorni”, in modo simile, gli operatori umanitari non dovrebbero dimenticare che i rifugiati non sono i soli pesci nella vasca: anch’essi stessi restano ospiti. Ospiti benvenuti a condizione che si interessino del benessere locale al di là di ciclici stati d’emergenza.