Dentro al campo palestinese di Ain Al Hilweh, 1 chilometro quadrato e 100mila persone, anche i sogni sono compressi.
Di Davide Lemmi
Sottovuoto, circondati da palazzi grigi e bandiere nere, generazioni di palestinesi rinforzano i ranghi dei clan che si spartiscono l’area. C’è Al Nusra, l’Isis, Hamas, Fatah e Fatah al Islam, ogni zona fa riferimento a un partito o movimento, ogni fazione risponde ad un leader, autonomo all’interno e legato a sponsor esterni.
Armi e droga, Islam radicale e indottrinamento, sepolte le speranze di sopravvivenza civile, è la violenza a dipingere il contesto.
“Qui non c’è futuro, i ragazzi si arruolano nei vari gruppi fin dall’età di 12, 13 anni”, le parole di un rappresentante di una delle Ong che operano ad Ani Al Hilweh ci danno il benvenuto.
Piccole Fort Knox di sabbia nell’Oceano di violenza del campo profughi, Naba’a è un’altra associazione impegnata a contrastare il fenomeno della paranza dei bambini palestinesi. Uno dei volontari dell’organizzazione ci apre le porte del centro adibito ad attività scolastica e di sostegno sociale alle numerose famiglie indigenti del campo, “non conosciamo i numeri esatti del campo, sappiamo però che all’interno di questa struttura, e di un’altra adibita ad asilo, ospitiamo giornalmente circa 500 bambini”.
Manca il respiro, tra gli stretti vicoli del campo e i fili elettrici scoperti, la dispersione scolastica e l’analfabetismo dilagano.
La condizione palestinese su suolo libanese è precaria: senza diritti sociali e politici, gli ormai ex profughi sono considerati persone di serie B. “Un bambino qui non ha opportunità, cerchiamo quindi di ricreare esperienze positive e di integrazione”, continua il volontario di Naba’a, “spesso riusciamo anche ad organizzare gite all’esterno di Ain Al Hilweh, in modo da fargli conoscere un’altra realtà”. La resistenza di associazioni come Naba’a o dell’italiana Terre Des Hommes è strenua. I fortini resistono, ma il contesto è variabile. Il campo è in divenire costante, le frizioni dei gruppi al suo interno non risparmiano volontari e associazioni umanitarie, spesso obiettivi di attacchi.
“La popolazione è aumentata con l’acuirsi della crisi siriana”, continua il volontario di Naba’a, “un incremento di almeno 30mila unità che ha peggiorato i già esistenti problemi sociali e abitativi”.
Nell’indifferenza generale della politica libanese e palestinese, schiere di ragazzini si arruolano e imbracciano kalashnikov e Rpg. Gli ingredienti della paranza sono stratificati: c’è una ferita sociale aperta, ai palestinesi sono vietati 72 tipi di lavoro; c’è la questione politica, i leader dell’Anp sono accusati di corruzione e lontananza dalla base che dovrebbero tutelare; c’è una forma mentis calcificata, i bambini nascono, crescono e muoiono senza aver conosciuto altro all’infuori di Ain Al Helweh. In un campo di un chilometro quadrato, il punto di partenza è spesso lo stesso di quello di arrivo, “Ad Ain Al Hilweh le strade sono due: la prima, più difficile e tortuosa, ha riscattato l’esistenza di molti individui che adesso lavorano come professionisti in tutto il mondo; la seconda, nonché la più comune, è quella della guerra”, conclude il volontario di Naba’a.
Lasciamo il campo di Ain Al Hilweh, piove, intorno a noi edifici in costruzione, in fondo alla strada un check point a separare ciò che appartiene al dentro, da ciò che deve stare fuori. Solo 3 metri, un controllo e ricominci a respirare.