Siria, la guerra e la propaganda

Eva Bartlett e le altre campagne per legittimare il regime

di Cecilia Dalla Negra e Fouad Roueiha

“La prima vittima di ogni guerra è la verità”, recita un motto popolare. Uno di quelli che, mai come in queste ore, vengono confermati nel seguire le notizie che si rincorrono intorno alla tragedia siriana. Dove, tra bombardamenti ed evacuazioni, tra civili dimenticati e interessi geostrategici, ciò che diventa sempre più difficile trovare è l’attendibilità delle informazioni, la credibilità delle fonti, la professionalità con la quale si diffondono aggiornamenti, in un flusso caotico e continuo che confonde i fatti con le opinioni.

Se è vero che “il giornalismo imparziale non esiste”, è vero anche che alcune distinzioni restano. Quelle che servono per non perdere la bussola nel mare infinito di una guerra che ha finito per coinvolgere anche l’informazione, degenerata spesso in un esercizio di tifoseria nel quale esiste ancora, però, una zona franca: quella che divide la propaganda dal giornalismo. Le opinioni dai fatti.

Ne è esempio un video divenuto virale in breve tempo sui social network. Sullo sfondo azzurro in cui si riconosce il simbolo delle Nazioni Unite parla Eva Bartlett, “giornalista indipendente”, che ci racconta di come tutto ciò cui stiamo assistendo in Siria sia, sostanzialmente, falso.

Sarebbe falso che le manifestazioni esplose nel 2011 furono inizialmente pacifiche e nonviolente, restando tali almeno sino al 2012. Falso che il governo di Bashar al-Asad abbia indiscriminatamente assediato e colpito i civili, ad Aleppo come altrove, in questi cinque anni di guerra.A smentirlo, sarebbe il racconto delle persone che fuggono da Aleppo (da cosa, a questo punto, è lecito domandarsi)

E ancora: sarebbe falso che la popolazione voglia un cambiamento, perché i siriani sostengono il loro presidente. Come lo sappiamo? Lo dicono le elezioni. Quelle del 2014, svolte quando la guerra era ormai in corso da 3 anni, in un paese parzialmente distrutto, e per le quali gli unici dati reperibili sono quelli governativi. Tra gli osservatori internazionali ammessi, che accolsero con favore il “regolare svolgimento del voto”, c’erano la Russia, l’Iran, la Corea del Nord e lo Zimbabwe: attori non esattamente neutrali sul teatro siriano ne’ campioni di democrazia. Gli stessi che in seguito voteranno contro l’istituzione di un meccanismo indipendente per la persecuzione dei crimini di guerra avvenuti in Siria dal 2011.

Undici milioni di persone al voto secondo il governo, con un gradimento verso il presidente pari all’88,7%. Percentuali bulgare, si sarebbe detto una volta. In effetti però in quelle elezioni che sono state le prime con più di un candidato negli oltre 40 anni di regime degli Asad, Hafiz prima e Bashar dopo, si registra una flessione nella percentuale: per la prima volta si è scesi sotto quel 99.2% dei consensi che era stato il minimo storico fin dal 1971.

Nel racconto della Bartlett mancano però dei pezzi: quello dei 2 milioni e mezzo di siriani che già nel 2014 erano rifugiati fuori dal paese e gli sfollati in patria, che insieme compongono 1/4 della popolazione; e quello dei siriani nelle aree allora controllate dall’opposizione araba e da quella curda, che hanno entrambe boicottato le elezioni rendendo irreperibili urne in cui votare; quello delle regole per candidarsi alle elezioni che praticamente escludevano qualunque oppositore storico perché tutti hanno vissuto l’esilio e molti si sono sposati con cittadini stranieri; quello dei tanti report di persone fermate ai posti di blocco del regime e condotte alla cabina elettorale dall’esercito; quello degli altri candidati che non hanno mai criticato Asad in campagna elettorale e rilasciavano interviste con alle spalle la gigantografia del loro “avversario”. Ed infine quello delle campagne lanciate dagli oppositori di Asad (che no, non sono solo jihadisti) contro le “elections of blood” o dei vignettisti con le loro raccolte di immagini satiriche.
Una situazione che, altrove nel mondo arabo, non abbiamo esitato a chiamare per nome: dittatura.

Senza scomodarsi ad arrivare in Siria, in realtà, basterebbe raccogliere il parere delle centinaia di migliaia di siriani fuggiti in Europa. Nell’ottobre scorso lo hanno fatto in Germania, il paese che ha accolto più siriani, ed il primo sondaggio svolto tra i rifugiati lascia poco spazio ai dubbi: il 70 percento scappa da Asad ed il 79 percento ritiene che la violenta repressione scatenata dal dittatore contro le manifestazioni pacifiche sia la causa della guerra in corso.

La stessa Bartlett, che accusa l’intera categoria “stampa occidentale” di non avere fonti attendibili, e di improvvisare alla luce di “un’agenda di regime-change”, di indipendente sembra avere ben poco. Collaboratrice di Russia Today, basta vedere il suo profilo Facebook per capirne le posizioni; non è stata ospitata dalle Nazioni Unite, come si è detto, ma da una conferenza stampa organizzata dalla rappresentanza turca all’Onu. Probabilmente Mosca e Ankara sì, un’agenda ce l’hanno. Anche questo è un fatto, non un’opinione.

“I vostri attivisti anonimi non sono credibili. I White Helmets (Caschi Bianchi) non sono credibili. Sono stati finanziati con 100 miliardi di dollari da Stati Uniti, Gran Bretagna, Europa e altri paesi. Non sono neutrali, affermano di aiutare i civili ad Aleppo ma nessuno ne ha mai sentito parlare e puoi trovarli a trasportare armi”, accusa Bartlett, facendo eco ad una vulgata ormai molto diffusa presso le opinioni pubbliche mondiali.

E’ vero, sono vari i paesi che finanziano i Caschi Bianchi, la Protezione Civile Siriana. Il maggior donatore è il Regno Unito, ma ci sono anche gli Stati Uniti, l’Olanda, la Germania e persino il Giappone. Negli ultimi 2 anni il loro bilancio ha oscillato intorno ai venti milioni di dollari annui. Non è stato difficile verificare queste informazioni, sono bastate due telefonate per parlare con il loro responsabile comunicazione, Abdulrahman AlHassan, che poi ci ha spiegato che loro lavorano in ossequio a l’articolo 63 della prima Convenzione di Ginevra, cioè in accordo con il diritto internazionale umanitario.

“Seguiamo rigidamente gli standard internazionali che definiscono i nostri compiti, le nostre competenze e le regole con cui dobbiamo lavorare, anzi facciamo di più: secondo il diritto internazionale in un’area di conflitto anche i civili e gli operatori umanitari possono avere un arma per l’autodifesa, noi non lo permettiamo ai nostri uomini né quando sono in divisa, né quando sono fuori servizio. Talvolta è successo che abbiamo dovuto licenziare degli uomini dopo aver visto delle immagini in cui sparavano in aria durante un matrimonio, lo abbiamo fatto con dispiacere ma non possiamo compromettere la nostra posizione”, spiegano.

Quando gli abbiamo riferito delle dichiarazioni di Eva Bartlett sui finanziamenti USA AlHassan è scoppiato in una risata amara: “Le Nazioni Unite stimano in 60 miliardi di dollari il costo dell’intera ricostruzione della Siria, 100 miliardi è una cifra ridicola. Ai nostri finanziatori noi presentiamo bilanci completi e dettagliati, rendicontando tutte le spese e presentando progetti e bilanci di previsione per ciascun nuovo finanziamento o per dare continuità al lavoro che svolgiamo.”

In effetti la cifra citata dalla giornalista canadese dovrebbe far riflettere, dato che è quasi quattro volte il valore dell’ultima manovra finanziaria dell’Italia, paese che ha il triplo degli abitanti della Siria ed è la settima economia mondiale. AlHassan si dice depresso dal fatto che qualcuno possa ancora dar credito a chi afferma che la protezione civile siriana non esista, dopo che sono stati diffusi migliaia di video delle loro operazioni, che sono stati nominati per il Nobel per la Pace, dopo che hanno vinto il “premio Nobel alternativo” e che il loro presidente Raed Saleh è stato ricevuto al Palazzo di Vetro dell’ ONU ed al Parlamento Europeo.

“Ci dispiace solo non poter lavorare nelle zone del regime, vorremmo portare soccorso anche lì ma ce lo impediscono. Anzi, oltre a prenderci di mira con i bombardamenti, quando ci hanno sfollato da Aleppo ci hanno sottratto le attrezzature ed un mezzo di soccorso al check point”, conclude AlHassan.

Abbiamo raggiunto telefonicamente Monther Etaky, mediattivista uscito da Aleppo Est poche ore fa con la sua famiglia, che conferma: “Certo. I Caschi Bianchi sono stati sostenuti economicamente da Stati Uniti e Gran Bretagna, non è un segreto per nessuno. Non mi risulta in alcun modo che abbiano mai trasportato o impugnato armi e svolgono un lavoro umanitario fondamentale”. Per tirare fuori persone dalle macerie dei bombardamenti, forse, un’agenda in effetti non serve.

“Come si può affermare che le proteste sono rimaste non armate e nonviolente sino al 2012? Non è assolutamente vero. Come si può dire che il regime sta attaccando i civili ad Aleppo, quando tutte le persone che escono da lì affermano il contrario?”, prosegue Eva Bartlett, instillando il dubbio in chi la ascolta che in fondo tutta questa storia della rivoluzione sia una bufala.

Fu lo stesso Bashar al-Asad, durante il suo primo discorso ufficiale dallo scoppio delle rivolte, a definire quelle che scendevano in strada come “proteste legittime” pur affermando che c’erano “infiltrazioni esterne”. Era l’aprile 2011, e la rivolta era appena esplosa dopo l’arresto di 20 bambini a Dar’a, colpevoli di aver scritto sui muri la loro voglia di libertà. Il simbolo della rivoluzione siriana era e resta Hamza al-Khatib, tredicenne arrestato durante una delle prime manifestazioni pacifiche in città e restituito giorni dopo alla famiglia morto, evirato, torturato.

Il fatto che le dimostrazioni siano nate in modo nonviolento non è un’opinione, è un fatto, testimoniato da migliaia e migliaia di testimonianze orali, oltre che dai video come quello di Hama o quello del febbraio 2012 a Homs o l’altro ancora di fine 2011 ad Aleppo. Che il 95 percento delle vittime civili siano state provocate dall’intervento governativo e russo non è un’opinione, è un fatto.

A dircelo non è solo il discusso Syrian Observatory for Human Rights di Londra, ma anche il Violation Documentation Center ed il Syrian Network for Human Rights i cui dati sono ritenuti affidabili da tutte le organizzazioni governative e non governative, dall’ONU ad Amnesty International.

Se Bartlett è credibile perché “parla alle Nazioni Unite”, allora lo è anche il segretario generale Ban Ki Moon, quando davanti all’assemblea dell’Onu nel settembre del 2016 afferma che “Tanti gruppi hanno ucciso molti civili in Siria, ma nessuno ne ha uccisi di più del governo siriano, che continua a bombardare quartieri e torturare migliaia di detenuti” o l’Alto Commissario per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein quando denuncia i massacri dei civili ad Aleppo per mano del regime il 13 dicembre scorso.

Gli attacchi contro i civili ad Aleppo non sono un’opinione, ma un fatto, testimoniato da talmente tanti video, foto, racconti e interviste che impossibile è, semmai, affermare il contrario. Basti guardare questa lunga diretta di Rami Jarrah, qui, che ha dato voce alla gente di Aleppo durante le prime settimane dopo l’intervento diretto delle forze russe.

Scriveva già nel 2014 Shady Hamadi, giornalista italo-siriano: “In Siria i giornalisti sono (ed erano) sul campo, solo che non hanno la qualifica di corrispondenti. Mi riferisco ai ragazzi siriani che con i loro cellulari riprendono, a rischio della vita, quello che accade nelle strade del loro paese”. Di loro parla nel suo articolo su TRT World anche Loubna Mrie (che, per gli amanti delle etichette confessionali, è alawita come Asad), rattristandosi di quanto le voci dei siriani siano insignificanti per l’opinione pubblica internazionale ed in effetti sembra che solo le parole di giornalisti occidentali abbiano un qualche credito, le parole delle Eva Bartlett non hanno bisogno di fact checking né di controprove.

Questa guerra, come mai altre prima, è talmente raccontata, filmata, postata, vista e ascoltata che l’unico modo per non prendere atto di quanto accade è, semplicemente, non volerlo vedere.

Lo testimoniano Human Rights Watch (qui) e Amnesty International (qui), finiti anch’essi nel calderone del complottismo internazionale e della non credibilità, in quanto a loro volta “strumento dell’imperialismo occidentale”. Che però, come per magia, non sono più tali quando denunciano i crimini israeliani sulla Striscia di Gaza, o quelli marocchini nel Sahara occidentale o gli stessi crimini di Al Qaeda in Siria. Strumenti e organizzazioni che possono naturalmente essere messe in discussione. Ma a patto allora di riscrivere l’intero sistema, e di farlo sempre. Anche quando le loro denunce ci piacciono di più.

Fin qui abbiamo visto le più eclatanti affermazioni contenute nel video di Eva Bartlett, altre accuse mosse dalla giornalista sono più complesse da verificare: basta una ciotola di letame per sporcare un’intera botte d’acqua limpida, mentre per ripulire quella stessa acqua serve un lungo procedimento.

Possiamo però affidarci a diversi fact-checking di altre testate, tra cui quelli dell’emittente britannica Channel 4 o del sito specializzato Snopes.com che smentiscono le affermazioni riguardo a vittime “riciclate” e ospedali mai bombardati.

Per quanto ci riguarda, i “nostri” attivisti non sono anonimi, raccontano le loro storie ma rivelano i loro nomi solo quando loro ed i loro famigliari sono al sicuro dalla minaccia del regime o delle milizie estremiste. Sarebbe interessante sapere come si chiamano i suoi.

Torture, uso indiscriminato delle armi contro i civili, detenzioni arbitrarie, violazioni dei diritti umani, ospedali distrutti dai bombardamenti (sì, anche più volte. Non perché si tratti di bufale, ma perché sono stati ricostruiti e distrutti ancora e ancora, come testimonia l’Organizzazione Mondiale della Sanità), non sono opinioni. Sono fatti. E da questi sarebbe buona norma partire per costruirsi, poi, le opinioni.

Dicevamo in apertura che la verità è la prima vittima della guerra e questo è sicuramente vero, sono tante le bufale che sono girate sulla Siria, la più spudorata degli ultimi tempi è la foto che l’ambasciatore ONU del regime di Asad, Bashar Al Jaafari, ha mostrato all’ Assemblea Generale spacciandola per Aleppo mentre era stata scattata mesi prima, in Iraq. La più recente, sventata, è quella dei cinque egiziani arrestati mentre giravano un falso video “da Aleppo”.

In questi anni abbiamo visto e sentito tante menzogne, alcune clamorose come quella dell’ufficiale israeliano catturato in Iraq mentre addestrava terroristi di Daesh, il risultato fondamentale è, per dirla come Rossini nel Barbiere di Siviglia, quello di “ravvivare quel venticello che piano piano s’introduce nelle orecchie della gente, fa stordir le teste, prende forza, si propaga e poi raddoppia per diventare come un colpo di cannone”.

Ma non importa. Perché nessun fact checking è richiesto. Perché la stampa “amica”, oggi rappresentata da Eva Bartlett, così come la Russia, l’Iran o Asad, dicono la verità. Una verità che è sparita dietro una verifica delle fonti che non è più richiesta. Dietro una professionalità dimenticata. Dietro le opinioni che sono divenute fatti. Dietro la tifoseria da stadio cui si è ridotta la lettura di contesti umani, trasformati in enormi partite di Risiko giocate su Facebook, quando ci siamo accorti di essere tutti analisti geo-politici.

Anche questa è la guerra di Siria, e il destino della sua popolazione schiacciata dall’indifferenza.