È morto il re, viva il re!

Rafsanjani, ex presidente dell’Iran, muore lasciando una eredità controversa

di Paola Rivetti

Ali Akbar Hashemi Rasfanjani, ex presidente della Repubblica islamica e gigante della politica iraniana, è morto ieri, 8 gennaio 2017, all’età di 82 anni.

Il fatto è di una portata politica enorme, se si pensa che Rafsanjani è stato per decenni al centro, sovente imbastendole e orchestrandole, delle lotte intestine al regime. Figura fondamentale nella storia contemporanea del paese, la sua statura di stratega ed ‘eminenza grigia’ gli aveva conferito una aurea quasi mitologica, tanto da far dimenticare che potesse, anche lui come noi, passare a miglior vita.

Ha nel corso della sua carriera politica frequentato le più alte istituzioni della Repubblica islamica ed esercitato ampio potere. Ha suscitato odio e disprezzo nella popolazione e tra gli avversari politici, ma ha anche goduto di rispetto, spesso grazie alla sua capacità di riciclarsi a seconda del momento politico.

Questa estate, una amica a Teheran, commentando il giornale, mi ha detto: “Vedi, ora lo chiamano Signor Hashemi, non più Rasfanjani, per dargli umanità, per cucirgli addosso una personalità più rispettabile”.

Frequentando l’Iran da diversi anni, ricordo quando al posto della sua attuale immagine rassicurante, di uomo anziano benevolente, quasi sempre ritratto sorridente, Rafsjaniani era invece chiamato ‘lo squalo’ e considerato l’uomo più corrotto e miserabile di tutto l’establishment.

Ricordo le elezioni presidenziali del 2005, quando, rimasto solo al ballottaggio contro Ahmadinejad, molti amici e molte amiche di fede progressista decisero di non votarlo, nonostante in quella circostanza egli rappresentasse l’argine contro i conservatori.

Ricordo anche una copertina del 2008 della rivista andreottiana 30 giorni dedicata proprio a lui, che anni fa lessi come la testimonianza della ovvia corrispondenza tra la personalità e il ruolo politico di Andreotti e di Rafsanjani.

L’ex presidente ha attraversato diverse fasi politiche, e l’ultima era in sostegno della fazione dei cosiddetti ‘moderati’ e del presidente Rouhani, con il quale intrattiene un rapporto di vicina collaborazione da molti anni.

In seguito alla rivoluzione del 1979, Rafsanjani divenne il primo portavoce del Parlamento, incarico che ritenne per nove anni. Durante la guerra tra Iran e Iraq, dal 1980 al 1988, egli era il rappresentante di Khomeini, allora Guida suprema della rivoluzione, presso il Consiglio supremo per la difesa, a dimostrazione del rapporto estremamente intimo che vi era tra i due.

Non è inusuale trovare nelle fotografie che ritraggono Khomeini con il giovane Rafsanjani al suo fianco. Quello tra Khomeini e Rafsanjani fu un rapporto di amicizia e di stretta collaborazione politica, caratterizzato da grande fiducia.

Se fino alla fine della guerra, Rafsanjani ebbe ruoli di grande importanza, fu tuttavia in seguito alla fine di questa e alla morte di Khomeini (1989) che egli poté ascendere alla carica più importante, seconda solo a quella della Guida suprema, ovvero alla presidenza della Repubblica.

Rafsanjani fu presidente per due mandati consecutivi, tra il 1989 e il 1997, quando gli successe il suo collaboratore (ed ex Ministro della Cultura) Mohammad Khatami. A cavallo tra gli anni ’80 e ’90, egli ebbe anche un altro ruolo fondamentale, ovvero quello di aver sostenuto la nomina di Khamenei a Guida suprema.

Conservatore Rasfanjani, conservatore Khamenei, nel paese si consolidava in questo modo una egemonia di destra, favorevole al libero mercato e ferocemente anti-democratica.

Rafsanjani fu tuttavia, durante le sue presidenze, in grado di alienare il consenso di quasi tutte le altre forze politiche (tranne la sua, che raccolse nel gruppo Kargozaran ovvero i servitori della ricostruzione).

La cosiddetta sinistra islamica lo detestava perché li aveva emarginati politicamente, riducendo i discorsi anti-capitalisti e anti-imperialisti di questi a una vetusta memoria, schiacciata dallo yuppismo della sua amministrazione; il resto dei conservatori anche lo detestava per i suoi tentativi di riappacificazione con gli Stati Uniti e per le sue politiche di liberalizzazione economica, che avrebbero potenzialmente danneggiato monopoli di cui molti deputati e politici erano rappresentanti – se non diretta emanazione.

Egli però non si occupava, purtroppo, solo di politica estera ed economica, ma anche di cultura: fu durante gli ultimi anni come presidente (1996-1997) che avvennero diversi omicidi di intellettuali laici e progressisti, le cosiddette ‘morti a catena’, che il giornalista Akbar Ganji (ora in esilio negli Stati Uniti) ha nel suo lavoro di inchiesta imputato proprio a Rafsanjani.

È interessante vedere come questo uomo politico senza scrupoli sia oggi celebrato come eroe della libertà, persino dai suoi vecchi nemici. Non credo si tratti semplicemente di ‘rimozione della memoria’.

Credo si tratti di una reazione volta a scongiurare la paura di quello che potrebbe accadere da adesso in poi, ovvero la ri-compattazione del fronte conservatore e la sua ri-ascesa politica grazie proprio al vuoto lasciato da Rafsanjani.

Ciò accadrebbe in un contesto internazionale caratterizzato già da un forte scontro con la presidenza Trump e da un livello di apprezzamento per l’Iran bassissimo, forse il più basso dalla guerra contro l’Iraq, a causa del ruolo di Teheran nel conflitto siriano e yemenita.

Dalla fine degli anni ’90 in poi, infatti, Rafsanjani ha svolto una azione volta a contenere il potere dei conservatori, sostenendo i governi riformisti di Mohammad Khatami, che proseguivano i suoi progetti di liberalizzazione economica ma intendevano anche riformare in senso democratico e liberale gli aspetti più autoritari della Repubblica islamica.

Ma ciò che ha definitivamente fatto transitare Rafsanjani nelle fila dei ‘buoni’, dopo decenni passati nelle fila dei corrotti e dei cattivi, è stato il suo sostegno al movimento verde (ovvero il movimento di protesta che esplose nel 2009 in seguito alla rielezione di Ahmadinejad a presidente, elezione che in molti valutarono essere stata manomessa).

Pur non denunciando brogli elettorali, egli si espose pubblicamente chiedendo la fine della violenza contro i protestanti, la liberazione dei prigionieri politici e intraprendendo numerosi viaggi tra Teheran e Qom per cercare consenso tra i membri del Consiglio degli esperti su una possibile destituzione di Khamenei, sostenitore della rielezione di Ahmadinejad e comandante ultimo delle forze dell’ordine che massacravano i manifestanti.

Rafsanjani pagò per queste sue prese di posizione: i figli furono arrestati, non poterono lasciare il paese per anni e per qualche tempo egli venne persino emarginato pubblicamente e politicamente.

Salvo poi riprendersi una volta che lo scontro emerse tra Ahmadinejad e Khamenei stessi, portando alla frammentazione del fronte conservatore e quindi a un nuovo vuoto di potere che egli riempì della sua presenza attraverso la candidatura a presidente di Hassan Rouhani, risultato poi vincitore alle elezioni del 2013.

Ha indubbiamente dato forza a Rouhani, il sostegno di Rafsajani. Come in molti commentano a Teheran, Rouhani ha ‘la faccia di bronzo’, ‘non le manda certo a dire’; questo succede anche grazie a Rafsanjani.

Che cosa accadrà adesso? Rafsanjani amava paragonarsi ad Amir Kabir, figura di grande modernizzatore par excellence del paese, non nascondendo la sua ambizione e considerazione di sé stesso. In molti oggi fanno lo stesso, questa volta non a mo’ di scherzo, bensì per celebrare la sua memoria e allontanare così previsioni negative per il futuro.