Oggi a Bilbao una grande manifestazione per i prigionieri e le prigioniere basche, ancora vittime della dispersione carceraria. Solo due prigionieri su centinaia sono detenuti in carceri basche, e per ragioni gravi di salute. Sure, associazione che si occupa dei familiari dei prigionieri ha organizzato una manifestazione che, purtroppo, è tradizione all’inizio dell’anno. Alessandro Ruta, qui di seguito, ha fatto una cosa semplice e molto efficace: ha percorso le centiniaia di chilometri che separano i familiari e gli amici dai loro cari incarcerati. Tutto per pochi istanti. tutto per la visita.
(a.m.)
Dicono che il simbolo dei Paesi Baschi sia l’Ikurrina, la bandiera bianco-rosso-verde che ricorda quella della Scozia, con la croce di Sant’Andrea al centro.
di Alessandro Ruta
Dicono anche che il simbolo dei Paesi Baschi sia il “Lauburu”, una sorta di croce celtica, ma ammorbidita nelle punte, che sembra quasi un fiore (“Lau buru”, ovvero “Quattro teste”, in euskera). Per non parlare dell’Athletic Bilbao, un altro emblema di questa terra, la squadra composta solo da calciatori nati nelle sette province basche o che hanno militato, nelle giovanili, una formazione con base in Euskal Herria. E il cibo di altissima qualità, la costa selvaggia e frastagliata, il gioco della pelota: tante altre cose simboleggiano i Paesi Baschi. Ma forse non c’è nulla che rappresenti meglio questa terra e le loro persone meglio dei furgoni. O comunque di un mezzo su quattro ruote in grado di portare più gente. E di accompagnare uomini, donne e bambini in carcere, per le cosiddette “visitas”.
Dispersione
Non ci sono dati certi o numeri ufficiali, ma a spanne più della metà della popolazione basca ha, o ha avuto, un parente o un amico finito in carcere per motivi politici. Non perché necessariamente appartenente ad Eta, è giusto ricordarlo. Magari è finito in una manifestazione a cui era meglio non partecipare, oppure è stato accusato di aver aggredito un Guardia Civil, come recentemente successo nella cittadina navarra di Alsasua; insomma, in certi casi basta poco per finire dentro, anche solo per pochi giorni, e beccarsi una condanna pesante tra multe e anni di inabilitazione dai pubblici uffici.
Il guaio è il dopo, perché nella quasi totalità dei casi il carcere dove finiscono i prigionieri (o “presos”) è a centinaia e centinaia di chilometri dai Paesi Baschi: anche se di centri penitenziari in Euskal Herria ce ne sono. E’ la cosiddetta “dispersione”, la si legge anche nelle ricorrenti manifestazioni di protesta, sui cartelli: “Dizpertziorik ez”, “Nessuna dispersione”, letteralmente. Oppure il coro “Euskal presoak etxera”, “Prigionieri baschi a casa”. Questo perchè un conto è avere il proprio familiare o amico a pochi chilometri di distanza, seppur prigioniero: un conto è il doversi sciroppare giornate intere, per andare nelle carceri francesi in Bretagna o a Parigi, o in quelle autoctone di Cadice, in Andalusia.
Sono ore e ore di viaggio, dalla notte tra il venerdì e il sabato, nel peggiore dei casi, fino alla domenica inoltrata: roba che per gente anziana, come possono essere i familiari di un carcerato, può costare tempo, denaro, fatica e stress. Tutto assieme, mese dopo mese, senza che ne abbiano colpa alcuna. Dopo un po’ potrebbero anche prevalere la stanchezza, fisica e morale, e la prostrazione: e invece, all’insegna della solidarietà, un sentimento, questo sì, che simboleggia appieno il popolo basco, tutto ciò viene messo da parte.
Inaki Garces
Eduardo Izarzugaza fa l’operaio, ha 46 anni (ma ne dimostra molti meno) e tutti lo conoscono come Eskarolo. Il motivo di questo soprannome ce lo spiega lui stesso: “Quando ero giovane avevo i capelli molto ricci, sembravo, appunto, che avessi in testa dell’insalata, della scarola. E poi mi piace la musica ska, quindi ecco tutto”. Eduardo vive a Otxandio, un piccolo borgo in provincia di Bilbao, ma più vicino a Vitoria-Gasteiz, la capitale dei Paesi Baschi: qui è uno dei volti più conosciuti e, come diversi compaesani, è finito almeno una volta in carcere, nel 1997. Il motivo? Atti di vandalismo e sabotaggio. “Finii tre giorni a Madrid in prigione, senza poter comunicare con l’esterno e mi torturarono”, ricorda, senza particolare rabbia. “Hai avuto problemi poi nel trovare lavoro dopo questa faccenda?”, gli chiedo. “Ci sono alcune aziende che ci fanno caso, altre no: quella dove sto io non l’ha considerato”, risponde.
Eskarolo è una delle tante persone che da Otxandio accompagnano genitori e parenti dei “presos” in giro per la Spagna. Tra questi, la mamma e il papà di Inaki Garces, lui sì membro di Eta, che peraltro è suo cugino. Nel 2023 verrà scarcerato, dopo una condanna di 25 anni, ma fino ad allora è rinchiuso nel centro penitenziario di Zuera, al confine tra le due province di Saragozza e di Huesca, in Aragòn: è la prigione più vicina ai Paesi Baschi, a oltre 300 chilometri da Otxandio, dove viveva Garces e dove tutt’ora risiede la sua famiglia. Tutto sommato un passo avanti, dato che in precedenza era nel carcere di A Llama, in provincia di Pontedera, in Galizia, a 600 chilometri di distanza.
In viaggio
Il carcere, come ovvio, non è un albergo. Le visite sono permesse solo a certe persone e in determinati orari. Ad esempio, alle 11 di un sabato mattina. Per cui, quando ci troviamo io ed Eskarolo per andare a recuperare i suoi zii, è ancora buio, nonostante siano già le 7: poi eccoli, mamma e papà Garces, con dei grossi pacchi in mano, fuori da casa loro. In uno c’è il cibo per noi, per la giornata; nell’altro coperte, vestiti puliti e qualche libro per Inaki, che in carcere sta studiando Scienze Politiche. Infatti riesco a intravedere il titolo di uno dei tre volumi che gli stanno portando: “El sistema politico espanol”, o qualcosa del genere.
Ogni mese questi due signori sulla settantina vanno a Zuera da loro figlio, e ogni mese c’è qualcuno di Otxandio che li porta: stavolta, siamo in novembre, tocca a Eduardo. La strada è deserta a quest’ora, la temperatura da sotto zero (Otxandio è a circa 600 metri di altitudine) sale, quando imbocchiamo l’autopista a Vitoria-Gasteiz, intorno ai 4-5 gradi. Da lì prendiamo verso Pamplona, uscendo da Euskadi ed entrando in Navarra. “Non prendiamo l’autostrada, usciamo prima, risparmiamo venti euro ad andare e altri venti a tornare, tanto ci mettiamo lo stesso tempo”, mi annuncia Eskarolo, che ormai è esperto di quella tratta, avendola percorsa decine di volte. Infatti, invece di prendere il cartello blu per Saragozza, quindi l’autovia, e quindi la strada a pedaggio, usciamo a Sanguesa, dopo Pamplona: è l’ultimissima propaggine della Navarra, a sud-est, quasi al confine con l’Aragona. Sosta tecnica per benzina e colazione in questo ostello/ristorante, che mi sembra uscito da qualche paesotto sperduto sulle Alpi: il clima, peraltro, è lo stesso, stiamo circondati da montagne e qua passa anche il Camino de Santiago, a pochi minuti di distanza si può visitare il bel Monasterio de Leyre.
In pochi chilometri siamo in Aragona, sulla A-127, nel territorio delle Cinco Villas, una zona piuttosto triste anche se con scorci notevoli, come il paesino di Sos del Rey Catolico, abbarbicato in alto, tanto che pare di stare in Toscana. La macchina si arrampica fino al Puerto de Sos, a circa 900 metri, e ridiscende verso la pianura, senza incontrare anima viva tra i tornanti: all’altezza di Castiliscar inizia a piovere con consistenza. Il panorama a destra e a sinistra dal finestrino è piatto e informe: campi e campi coltivati a grano, più qualche olivo e addirittura un kartodromo. Decisamente si sono viste giornate migliori, anche se laggiù in fondo i Pirenei innevati ci raccontano che qualcuno lì sta già sciando; in compenso la strada è più che scorrevole, in effetti ha ragione Eskarolo, che non c’è bisogno di spendere soldi in caselli se vai circa alla stessa velocità su percorsi gratuiti.
Al carcere
Il centro penitenziario di Zuera non è proprio nel territorio del comune, ma appena fuori; al termine di una provinciale che, dopo una serie di curve e controcurve, termina con questo casermone. Lì accanto, campi e campi, siamo al confine tra le province di Huesca e Saragozza: alle 10.35 siamo arrivati, ci sono volute tre ore e mezza. Aiutiamo i genitori di Inaki con i pacchi da portare dentro, la visita inizierà alle 11, quindi di tempo ce n’è ancora.
L’ingresso del carcere è una sala circolare, come una ciambella, nel cui buco vivacchiano una pianta d’olivo e una di melograno, non accessibili da dove siamo noi, in questo posto dalle pareti color verde bottiglia. Stride un filo, forse, la presenza di una sorta di sala giochi per bambini, adesso chiusa, lì accanto, manco fosse un ospedale. I genitori di Inaki, con Eduardo, vanno al riconoscimento (Eskarolo non è nella lista di persone che può partecipare alla visita), mostrano carta d’identità e impronte digitali, e poi incontrano, sono arrivati subito dopo di noi, altri parenti del prigioniero. Non posso non notare le lacrime che scendono dagli occhi di papà Garces.
Alle 11, puntuale, una sirena: si apre una porticina, quelli che posso accedere alla sala per gli incontri coi prigionieri vi entrano, e ci rimarranno fino alle 13. A me e a Eduardo non rimane che andare a pranzare nella vicina area di servizio: sotto una pioggia, adesso sì, torrenziale, ci infiliamo in un luogo riparato con tavoli e distributori di bevande, e ci prepariamo dei panini con il cibo portato da Otxandio (una bistecca, dei peperoni, qualche fetta di pecorino). Il freddo punge mentre ci rimpinziamo e parliamo un po’ di tutto, rigorosamente in euskera. Non ci sono alternative all’attesa, adesso riscaldata, dentro l’area di servizio, per un caffé macchiato.
“Ogni settimana è così: i weekend trascorrono in buona parte così”, si confida Eskarolo, ricordando altri viaggi, ben più lunghi, a Girona, con tanto di prenotazione di alberghi per la notte, o in Almeria. Roba che Zuera, al confronto, sembra una passeggiata in montagna. Mi racconta anche del passato di suo cugino, sfuggito all’arresto scappando e finendo in latitanza, prima di essere beccato un’altra volta; per diversi anni Garces era rimasto isolato in prigione, e alla primissima visita post-incarcerazione al colloquio con i suoi genitori si era presentato coperto di lividi, senza dubbio torturato.
Ken 7
Sorridono, uscendo dal centro di Zuera, mamma e papà Garces. Noi li abbiamo aspettati un quarto d’ora in macchina, con il sottofondo delle gocce di pioggia sul parabrezza da un lato e dall’altro di “Malen”, canzone del gruppo Ken 7 dedicata, appunto, alle visite dei parenti dei prigionieri politici (“Il sabato ancora in marcia, passando camion, passando macchine, mi metto a guardare verso l’infinito e si mischiano i ricordi”).
Un altro mese e torneranno a vedere il loro figlio, mentre nel frattempo, chissà, gli scriveranno qualche lettera. In tutti i bar dei Paesi Baschi, infatti, accanto alle foto dei prigionieri di quella determinata cittadina, c’è sempre l’indirizzo del carcere dove sono rinchiusi; per far sentire loro, appunto, la vicinanza della gente attraverso poche righe scritte a mano.
Adesso siamo di ritorno verso Otxandio: stessa strada dell’andata, stesso deserto incontrato sul tragitto, specialmente arrampicandoci verso il Puerto di Sos. E sempre allo stesso bar-ostello dell’andata ci fermiamo di nuovo per mangiare quello che è avanzato dal nostro pranzo all’area di servizio. E per prenderci un altro caffé. Mamma Garces, Simona, mi chiede che impressione mi abbia fatto questa esperienza, e laconicamente le rispondo che “impazzirei se ogni mese dovessi passare un sabato così”. Ma non perché sia stancante; piuttosto, sono sincero, sapere che molti ragazzi invece di rilassarsi durante il weekend si prendono carico di sciropparsi 650 chilometri per accompagnare della gente a un carcere, beh, è un pensiero forte.
Mirentxin
La solidarietà, parola magica con cui abbiamo aperto questo racconto, si concretizza anche in altri modi: non ci sono solo i volontari di ciascuna cittadina a portare parenti o amici nelle varie carceri. Dal 1999, infatti, esiste l’associazione “Mirentxin”, che sempre attraverso gente volontaria offre dei passaggi, in furgone: e non sono mezzi scassati, come si potrebbe immaginare, ma nuovi di pacca, perché come dice un ragazzo di questa associazione “La sicurezza viene prima di tutto”. Il vantaggio, tuttavia, è che con queste “furgonetas” si possono trasportare più persone che non con una sola vettura: e poi è come una sorta di sostegno reciproco maggiorato. Non sono viaggi della speranza, quelli di “Mirentxin”: la gente si tiene compagnia, specie quando bisogna percorrere centinaia e centinaia di chilometri e soprattutto si risparmia sulle spese. Quando poi i furgoni raggiungono un determinato chilometraggio che li renderebbe meno sicuri, scatta un’altra gara di solidarietà: vengono messi all’asta tramite lotteria, e il vincitore se li porta a casa. Nel frattempo, però, altri soldi vengono raccolti. Insomma, gli aiuti, come certi viaggi per le “visitas”, nei Paesi Baschi non si fermano mai.