Il documentario di Rezza e Mastrella, Milano, via Padova, sul paradosso dell’integrazione e del razzismo
di Luca Lòtano, tratto da Teatro e Critica
Se il teatro di Antonio Rezza è nel suo corpo, nei solchi e nei nervi non scindibili dagli ambienti scenici di Flavia Mastrella, l’inchiesta giornalistica Milano, via Padova è avvolta, come il microfono usato per intervistare, sulle sue braccia. E Rezza, come a teatro, ne fa ciò che vuole.
L’interazione fittizia, le interviste “a corpo libero” che nel progetto Troppolitani si infilavano nel caos di Roma, ripartono dal capoluogo lombardo, in una Milano lontana da quella città che svetta nelle classifiche sull’economia e la qualità della vita. Ma che cosa significa Milano, via Padova?
Se non siete milanesi o non la conoscete già, provate a digitarla su Google. «Omicidio», «trafficanti», «antidroga», «nuova Brooklyn». Sembra essere, insomma, quel luogo che vacilla nell’immaginario tra il «Bronx» di Milano, dell’esercito invocato dal sindaco Sala, e luogo di associazionismo dalla vocazione multiculturale. O, più realisticamente, realtà multietnica, luogo non comune che è strada eppure incrocio: di culture e suoni, come di rabbie e paure. (Qui molto altro di ciò che c’è da sapere sulla via).
Questa la realtà nella quale Antonio Rezza accede alla vox populi sul tema dell’integrazione e della convivenza, matrice e motrice di questo tempo. Tema che rimane ancorato, come in questi giorni di “emergenza sicurezza”, a slogan e analisi che livellano in una uniformità di argomentazione le opinoni comuni, i post su Facebook, le risposte degli intervistati. Rezza, allora, sfida il tema con l’arma sacra che gli è stata concessa: la performance.
Accade così che lontano dal clamore dei circuiti commerciali, mentre al Teatro Vascello è in scena nuovamente il sold out per l’antologia del duo (7-14-21-28 , Fratto X e Anelante), nel cineclub Apollo 11 in una via del multietnico quartiere di Roma, l’Esquilino, è in programma il lungometraggio di Rezza/Mastrella che sta girando in autodistribuzione.
Sembra quasi nascondersi in un sottoscala tra piazza Vittorio Emanuele, San Giovanni e Santa Maria Maggiore, ma l’Apollo 11 rappresenta oggi una delle alternative valide ai multisala, un’altra possibilità oltre i circuiti, almeno per ora, inaccessibili.
E qui, sullo schermo oltre il divano che ospita presentazioni e dibattiti, va in scena Milano Via Padova, opera che inizia nel 2011 da un’indagine affidata dalla Fondazione Gaetano Bertini e condotta dal duo Rezza/Mastrella assieme a Marco Tani, Massimo Simonetti, Ivan Talarico, Daniele Verlezza e Adil Bahir; diventa oggi, nel 2016, lungometraggio che prende la propria colonna sonora dal canto di chi quella via la abita.
Come parlare di razzismo, o di smania di integrazione? Come intaccare l’epidermide culturale del pensiero comune, della vita civile? Ha senso continuare a parlare di diversi o è parlandone che diventiamo tali? Più che prendere il microfono in mano è chiaro da subito che Rezza si faccia lui stesso microfono e parte grottesca della via; innesca davanti all’interlocutore dispositivi di interazione, crea contesti di dialogo tra gli abitanti e poi li abbandona, mette “l’oggetto” (che poi è il soggetto) della discussione davanti all’interlocutore.
La schizofrenia della performance si appropria così di quella sociale e la lascia finalmente affiorare sullo schermo, attraverso l’obbiettivo con il quale Flavia Mastrella circonda Rezza, un marocchino, un’oca, un indiano, i piedi di una donna diabetica, un sudamericano.
Integrare è più rassicurante che convivere? Rezza è un performer, Milano Via Padova è un’inchiesta che usa della performance il paradosso per disinnescarci inconsciamente, per eludere il meccanismo che ci è stato affidato dai mass media, da questa collettiva opera di persuasione.
Tutto è malcelata provocazione, eppure tutti danno corda, cavo, al microfono di Rezza e, attratti dalla telecamera, seguono l’inseguibile; come chiedere a un egiziano, in tempi di ballottaggio per il sindaco di Milano: “Tra un faraone e Pisapia chi sceglieresti?”. O a un gruppo di italiani: ”Lei ospiterebbe a casa sua un extracomunitario? In un angolo, in cucina, tanto non dà fastidio, si mette in un cantuccio e la guarda, si mantiene da solo”.
Rezza non si immedesima né si discosta dalle risposte, dagli stati d’animo, ma cinicamente li puntella di assurdo; non interpreta, ma ricrea la relazione, ne sposta l’oggetto per osservare la reazione.
Emblematici sono i pochissimi intervistati che vanificano in modi diversi la macchina infernale del performer: un signore italiano scavalca la mano e il microfono di Rezza – intermediario proposto e imposto – ignora la performance, la telecamera, e inizia a parlare in arabo con uno straniero. Non si può sempre pretendere di capire e non ci sono risposte possibili all’attacco performativo; l’unica soluzione è la stessa che il problema reale ci pone, cercare di entrare in dialogo diretto, se non con l’altro per mancanza di strumenti, almeno profondamente con noi stessi.
condotto e galoppato da Antonio Rezza
di/by Flavia Mastrella Antonio Rezza
interpreti/cast: Antonio Rezza
immagini di Marco Tani e Flavia Mastrella
montaggio/edited by Barbara Faonio
foto di scena Ivan Talarico
girato a Milano/ filmed in Milan
produttori/ producers: REZZAMASTRELLA – Fondazione Gaetano Bertini Malgarini Onlus