Cosa prevedono i due referendum sul Jobs Act

Due su tre: la Corte Costituzionale approva i quesiti proposti dalla CGIL su voucher e appalti ma salva il contratto a tutele crescenti

di Andrea Iossa

Una forte partecipazione

Mercoledì 11 gennaio, la Corte Costituzionale si è pronunciata sull’ammissibilità dei tre quesiti referendari proposti dalla CGIL in materia di leggi sul mercato del lavoro. Due su tre sono passati: si voterà (se il governo non interverrà in maniera sostanziale) per abolire lo strumento dei cosiddetti voucher (o buoni-lavoro) e per ripristinare la responsabilità in solido dei committenti negli appalti. Il terzo quesito – riguardante l’abolizione della riforma dell’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori – è stato invece bocciato.

La Costituzione prevede che un referendum abrogativo, totale o parziale, possa essere indetto su richiesta di almeno 500 mila elettori. La CGIL ha raccolto circa 1,1 milioni di firme per ciascun quesito.

Il totale di 3,3 milioni di firme raccolte dimostra come il tema del lavoro – e soprattutto della sua precarietà – sia un argomento particolarmente sensibile nella società italiana.

I quesiti proposti dalla CGIL mirano, infatti, a scardinare il fulcro delle politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro che, proposte come strumenti per la creazione di impiego, hanno di fatto prodotto un incremento della precarietà lavorativa che si è tradotto nell’incertezza del lavoro e nella riduzione dei diritti dei lavoratori.

Al contrattacco su precarietà e diritti

Nello specifico, i quesiti riguardano le riforme introdotte dal Governo Monti nel 2011 e completate dal Jobs Act adottato dal Governo Renzi nel 2015. Il primo quesito (quello rigettato dalla Consulta) intendeva cancellare la riforma del famigerato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ripristinando la disciplina del reintegro in caso di licenziamento illegittimo non ascrivibile a motivi discriminatori, disciplinari (in alcuni casi), o palesemente nulli per legge, per il quale il Jobs Act ha invece introdotto un risarcimento pecuniario variabile in relazione agli anni di impiego. Il sindacato mirava quindi ad abolire il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act, che ha di fatto eliminato una serie di tutele a favore del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, senza tuttavia risolvere la frammentazione contrattuale del codice del lavoro, come invece motivato dal governo al momento dell’adozione della riforma.

In attesa delle motivazioni della Corte, che saranno pubblicate nelle prossime settimane, si può ipotizzare che il giudizio di inammissibilità possa essere motivato dal tentativo del sindacato non solo di ripristinare l’applicazione del reintegro alle imprese con almeno 15 dipendenti, ma di abbassare tale soglia a quelle con minimo 5, che nella formulazione originaria si applicava solo alle imprese agricole. Come argomentato dalle memorie presentate dall’Avvocatura dello Stato, l’organo che assiste lo Stato nei procedimenti giudiziari, tale formulazione squalificherebbe il quesito in quanto ‘manipolativa’ e volta a creare una nuova norma piuttosto che promuovere la semplice abrogazione di una già esistente.

Il secondo quesito – il primo dei due ad essere stato ammesso dalla Corte – riguarda lo strumento dei voucher, che la CGIL punta ad abolire.

I voucher – o buoni-lavoro – sono stati introdotti nel 2003 nell’ambito delle politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro come metodi di pagamento del lavoro accessorio, ovvero (come definito dal decreto legislativo 276/2003) per le ‘attività lavorative di natura meramente occasionale rese da soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne’. La disciplina originaria individuava in soggetti ai margini del mercato del lavoro (come studenti, disoccupati, casalinghe, pensionati, disabili, e immigrati regolari) i possibili prestatori di lavoro accessorio in ben definiti ambiti lavorativi, quali il lavoro domestico, le lezioni private, o l’impiego in manifestazioni sociali e culturali od eventi straordinari motivati da emergenza o solidarietà. I rigidi confini così definiti per il lavoro accessorio, e quindi per l’utilizzo dei voucher, sono stati spezzati dalle successive riforme.

L’utilizzo dei buoni-lavoro è stato inizialmente liberalizzato nel 2009 dal Governo Berlusconi, che ha eliminato gli ambiti di applicazione, includendo anche i committenti pubblici, e fissato un limite di 3000 euro di retribuzione annua. Nel 2011, la riforma Fornero ha definitivamente sostituito gli ambiti di applicazione del pagamento tramite voucher con un criterio quantitativo che definiva il lavoro accessorio come l’insieme delle prestazioni lavorative non eccedenti un tetto massimo di 5000 euro annui di retribuzione e di 2000 euro per uno stesso committente. La riforma del 2013 ha poi snaturato del tutto l’istituto del lavoro accessorio mantenendo unicamente il criterio quantitativo ed eliminando il riferimento alla ‘natura meramente occasionale’ della prestazione lavorativa. L’ultima correzione è stata infine apportata dal Jobs Act del 2015, che ha esteso la soglia dei voucher fino a un massimo di 7000 euro annui di retribuzione.

Allo stato attuale, qualunque tipo di impresa, anche famiglie ed enti locali, possono ricorrere ai voucher in maniera indefinita, posto il limite dei 2000 euro di retribuzione annua per lo stesso lavoratore e di 7000 euro di retribuzione annua complessiva per il lavoratore. Il quesito referendario proposto dalla CGIL non mira a reintrodurre i limiti progressivamente eliminati, ma alla totale abrogazione dello strumento dei voucher come metodo di pagamento del lavoro.

Il terzo quesito, infine, riguarda la disciplina degli appalti.

Si voterà per ripristinare la responsabilità in solido verso i lavoratori, del committente e dell’appaltatore, anche in presenza di eventuali subappaltatori, in materia di trattamenti retributivi, contributivi e assicurativi, come originariamente previsto dalla norma del 2003. Attraverso l’abrogazione parziale della norma attuale sugli appalti, il sindacato propone di eliminare la possibilità del committente di chiedere al giudice di essere considerato l’ultimo responsabile (e non il responsabile ultimo) di eventuali violazioni degli appaltatori, così come di cancellare la possibilità di derogare alla responsabilità solidale del committente attraverso un contratto collettivo. La CGIL propone dunque che eventuali violazioni dei diritti acquisiti dei lavoratori nell’ambito di un appalto, siano sanzionate unicamente dalla legge, senza possibilità di deroga per mezzo di uno strumento – la contrattazione collettiva – soggetto a rapporti di forza e situazioni contingenti.

Riflessioni a margine: da ‘datore’ a ‘consumatore’ di lavoro e la nuova natura del sindacato

La questione dei quesiti referendari offre alcuni spunti di riflessione sullo stato del mondo del lavoro e sindacale italiano. Anzitutto va sottolineato che l’argomento dei voucher ha certamente un forte impatto non solo simbolico, data anche la dilagante diffusione di tale strumento. I dati pubblicati dall’Inps mostrano un incremento nell’uso dei buoni-lavoro del 67% nel 2015 e del 32% nel 2016, raggiungendo i 121 milioni e mezzo di buoni utilizzati nei primi nove mesi dello scorso anno. I numeri sembrano quindi suggerire che da occasionale, il lavoro accessorio pagato attraverso i voucher, sia divenuto abituale.

Introdotti come mezzo per favorire l’emersione del lavoro nero, garantendo sia al datore che al lavoratore una certa agilità dovuta alla natura occasionale della prestazione, i voucher sono diventati un sistema in cui i benefici sono nettamente sbilanciati.

I voucher non sono infatti uno strumento contrattuale: non creano particolari obblighi per il committente e non danno diritto ai lavoratori a disoccupazione, malattia e maternità. Il ricorso ai voucher priva dunque il lavoratore delle tutele sociali garantite per il lavoro subordinato. La natura di rapporto subordinato tuttavia permane, specialmente se il pagamento tramite voucher viene reiterato. Al tempo stesso un datore di lavoro che ricorra sistematicamente ai voucher può permettersi di sostenere in tal modo il costo del lavoro nell’impresa semplicemente avendo l’accortezza di non impiegare lo stesso lavoratore per un compenso superiore ai 2000 euro annui (ufficialmente, poiché il nero rimane un’alternativa valida e disponibile anche per la cronica assenza di controlli efficaci). In tal modo, il soggetto imprenditoriale, da ‘datore’ si trasforma in ‘consumatore’ di lavoro, utilizzando un lavoratore fino al tetto massimo consentito per poi impiegare allo stesso modo un altro lavoratore e così via. Sul lato datoriale, scompaiono gli obblighi e rimangono i benefici di uno strumento non-contrattuale di pagamento del lavoro con tassazione minima, mentre sul lato del lavoratore rimane lo sfruttamento, l’assenza di tutele, e l’incertezza.

Un’ulteriore riflessione riguarda invece il ruolo del sindacato. Nato come soggetto di rappresentanza collettiva dei lavoratori, il sindacato sta ormai da anni attraversando una crisi che potrebbe definirsi identitaria. L’aumento della precarietà del lavoro è certamente una delle cause. Il lavoratore senza posto fisso fatica a trovare nel sindacato un punto di riferimento in cui riconoscersi e su cui fare affidamento per migliorare le proprie condizioni materiali.

Di riflesso, il sindacato si sta forse trasformando, passando da soggetto di rappresentanza nei luoghi di lavoro a soggetto rappresentativo delle istanze dei lavoratori nell’arena politica.

Incapace per motivi sistemici e strutturali di mobilitare i lavoratori, sta quindi cercando nuove strade per affermare i valori di cui si fa portavoce. Il ricorso al referendum abrogativo piuttosto che ad uno strumento di pressione sulle politiche governative come lo sciopero generale, è forse il sintomo della trasformazione in atto. La metamorfosi non è necessariamente un processo negativo, dato il contestuale mutamento del mondo del lavoro, e non altera il ruolo storico del sindacato. Alla luce della crisi attuale, tuttavia, il nuovo soggetto dovrà probabilmente cercare una fonte di legittimazione che ne garantisca l’agibilità politica.