Le otto montagne

Il nuovo romanzo di Paolo Cognetti è uno spaccato sull’amicizia, sulla famiglia e sull’imperfezione dell’essere umani

di Marco Todarello

C’è una sorta di calore, di delicatezza, di rara potenza evocativa lungo le pagine di Le otto montagne, nuovo romanzo del milanese Paolo Cognetti (Einaudi, 2016).
È un romanzo sull’amicizia, innanzitutto, la storia di due bambini che diventano ragazzi e poi uomini, cresciuti al ritmo lento e riflessivo dei passi sui sentieri di montagna.

Ed è anche una storia sul rapporto tra padri e figli, sulle difficoltà dei maschi a confessare i sentimenti e sull’imperfezione dell’essere umani.

Poi c’è la montagna, naturalmente. Che di questa storia è contenitore ma anche un po’ il contenuto: sono i pendii delle Dolomiti che hanno fatto incontrare i genitori di Pietro, il protagonista, ed è in un villaggio alpino che lui imparerà a conoscere davvero la sua famiglia fino a mettere insieme i pezzi della sua storia; è lungo quei sentieri, tra gli alberi e le pietraie, che si ritroverà ad amarla, la montagna, fino a diventare uomo.
È il fascino dei boschi di abeti e larici, puntellati dalle piante di mirtillo e rododendro, degli alpeggi con le bestie al pascolo, e più in alto della nuda roccia, del giallo dei licheni e dei nevai.
Cognetti, che otto anni fa si è trasferito in una baita a 2000 metri in Val d’Ayas, in Valle D’Aosta, conosce molto bene quella bellezza ed è abile a raccontarla con una scrittura che a tratti è quasi poetica: «Il torrente veniva giù a balzi, all’inizio, cadendo in una serie di rapide schiumanti, tra grandi massi da cui mi sporgevo ad osservare i riflessi argentati del fondo. Più in là rallentava e si diramava, come se da giovane che era diventasse adulto».
Ma la montagna sa essere spietata, e per non subirla occorre conoscerla e anche un po’ temerla: «sotto di noi, da una parte, la pendenza della montagna aumentava, e il ghiacciaio si spaccava in una ripida seraccata; oltre quel tormento di blocchi rotti, crollati, ammassati, il rifugio da cui eravamo partiti veniva inghiottito dalla nebbia. Allora mi sembrò che non saremmo più tornati indietro».

È un passaggio che dà la cifra del tragico che permea tutta la storia, attraversata da due lutti e una separazione, eppure così equilibrata, mai urlata, narrata senza retorica.

Da Milano, dove è nato e cresciuto, all’arrivo dell’estate Pietro si trasferisce con i suoi genitori a Grana, ai piedi del Monte Rosa. Segue suo padre lungo i sentieri della zona fino all’ardua conquista del ghiacciaio, esperienza che lo segnerà per sempre.
Suo padre è un uomo schivo ma iperattivo, desideroso di conoscere ogni angolo di quelle montagne e di fare di suo figlio il suo erede: «[…] mio padre invece, più che dagli esseri umani, era attratto dalla materia: dalla terra, dal fuoco, dall’aria, dall’acqua; gli piaceva affondare le mani nella materia del mondo e scoprire com’era fatto». Pietro apprezza, ma fino a un certo punto.

«Perché soffrire per vivere così in alto?», chiede a suo padre. – «Se uno va a stare in alto, è perché in basso non lo lasciano in pace». – «E chi c’è in basso?». – «Padroni. Eserciti. Preti. Capi reparto. Dipende.»

A Pietro quella fatica sembra più un dovere che un piacere, almeno fino a quando non incontra Bruno, pargolo di una famiglia di agricoltori locali.
Il ragazzo di città e il ragazzo di montagna si scoprono, si intendono, vanno su e giù per le vette del Grenon e ad ogni salita, ad ogni colle superato corrisponde un pezzo di vita, in quel cammino verso la conoscenza di sé stessi che nessuno compie mai fino in fondo.
Sono diversi, ma la loro amicizia cresce e si consolida al di là di tutto. E quando arriva luglio, e i due si ritrovano dopo quasi un anno, nulla è cambiato ed è come se si fossero salutati il giorno prima.
Nelle tre sezioni del romanzo, che evocano anche i tre tempi della vita, Pietro e Bruno si salutano e si ritrovano diverse volte, in un caso l’attesa è lunga dieci anni. Il loro rapporto è fatto anche di intese silenziose, e Cognetti è bravo a riempire il non detto di significati importanti, stimolando l’empatia del lettore con i due protagonisti.

In questa storia fatta di uomini, le donne restano ai margini del racconto. Eppure sono le uniche capaci di amare incondizionatamente, senza inquietudini, o determinate quando c’è una parola importante da dire o una decisione da prendere.

Davanti alla velocità e alla “bulimia” informativa tipiche del nostro tempo, Le otto montagne ci riporta a una sorta di stato primordiale, fatto di concretezza e purezza della natura e dei rapporti umani. È un mondo in cui i valori dominanti sono la riflessione, la concentrazione, la lentezza, la pazienza. Perché chi non ha pazienza non può amare la montagna, ché il cammino verso la cima è lungo, faticoso e necessita di tempo e dedizione.
C’è anche la solitudine, che se da un lato è connaturata al carattere e allo stile di vita della gente di montagna, dall’altro può essere una condizione da perseguire, necessaria per fare i conti con noi stessi e provare a conoscerci per capire qual è il nostro posto nel mondo.
Nel libro, uno degli aspetti che colpisce di più è la lingua: l’italiano di Cognetti è bello, concreto ed efficace. Non ci sono artifizi retorici, ma solo una ricerca profonda delle parole giuste, nell’espressione e nello stile: «La neve doveva essere bella ghiacciata, perché Bruno ci saltò sopra e prese subito velocità: andò giù a piedi larghi, sciando sui suoi stivali da lavoro, mulinando le braccia per mantenere l’equilibrio, e in un attimo fu inghiottito dalla nebbia».
Ogni frase di questo periodo è come un colpo di pennello sulla tela, che svela la scena a poco a poco fino allo schiudersi dell’immagine finale.
Un vero piacere, per chi conosce la montagna e sente sue quelle descrizioni, ma anche per chi è semplicemente un amante della buona letteratura.
A tutto questo Cognetti unisce un’appassionata cura per i dettagli, evidente nella descrizione del paesaggio. Sembra di sentirli, i fischi delle marmotte «in piedi come sentinelle davanti alla tana», o il galoppare dei camosci sui dirupi, o ancora i campanacci delle mucche al pascolo. E di vederlo, il cielo terso del mattino dopo una tempesta di neve, o i colori che le rocce e gli alberi prendono a seconda dell’ora e della stagione.

La montagna è memoria, come ricorda a Pietro un vecchietto incontrato lungo il cammino, che prima di parlare gli offre uno zuccherino bagnato di grappa. «Per lui era come se, attaccando lo stesso sentiero una volta all’anno, si addentrasse tra i ricordi e risalisse il corso della propria memoria».
Ricordi non sempre belli, ma con cui se si vuole diventare grandi bisogna fare i conti: «L’estate cancella i ricordi proprio come si scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo che non vuole essere dimenticato», spiega a Pietro suo padre, durante quella famosa salita al ghiacciaio.

Ogni gioia, ogni dolore, ogni mistero della nostra vita ha un posto e un suo percorso. E come ricorda a Pietro un contadino nepalese, con la storia che dà il titolo al libro, la strada giusta non c’è.

«Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Introno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. […] E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?».
Ovvero, sarà andata meglio a Pietro, spinto dalla ricerca di sé e dalla vicenda familiare a partire, ritornare e ripartire, senza un equilibrio, o a Bruno, che per tutta la vita non si è mai mosso dalle sue montagne? Una risposta non c’è, nella finzione letteraria come nella vita.
E ognuno di noi — anche chi non ha mai indossato scarponi e bastoncini — ha una montagna con cui fare i conti, una montagna dove tornare. Un luogo che sta fuori e dentro di noi e che ci fa sentire come se fossimo da soli, davanti a uno specchio, con la nostra storia.