Opere donate dai più grandi artisti per il futuro Museo dell’Arte Contemporanea di Sarajevo
di Christian Elia, da Venezia
La Biennale di Venezia è un corpo vivo. Cresce, si muove. Non fermatevi ai circuiti principali, altrimenti rischiate di perdere l’occasione di visitare Ars Aevi, utopia del possibile, il padiglione dedicato al Museo di Arte Contemporanea di Sarajevo.
Alla Tesa 105, dell’Arsenale Nord, fermata vaporetto Bacini. Sulla porta ci sarà, come sempre, Enver Hadžiomerspahić. Un cognome che sembra una sintesi della storia della Bosnia, occhi azzurri e profondi, occhiali leggeri, elegante. Da più di venti anni Enver raccoglie opera d’arte dei più grandi artisti contemporanei, per dar vita ad Ars Aevi, progetto che ha superato il tempo e lo spazio. Una storia che parte da lontano. Prima della guerra, a Sarajevo, Enver si occupava già di cultura.
“Gli anni Ottanta nella vita della ex Jugoslavia e in quella di Sarajevo sono stati davvero anni particolari. Dopo la vittoria della città per le Olimpiadi del 1984 e dopo la costruzione del centro culturale Skenderja, lo spirito di Sarajevo – in particolare tra i giovani – ha conosciuto un entusiasmo enorme, una volontà collettiva di realizzare un evento storico”, racconta. “Sono stato fortunato, perché all’epoca ero stato nominato direttore dei programmi delle cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi. Dopo tre anni di duro lavoro organizzativo è arrivato il momento dell’inaugurazione e non so davvero chi potesse essere più felice di me. Una bellezza infinita. Questo entusiasmo collettivo ha prodotto molto anche in campo artistico, nel cinema come nella musica, per arrivare all’arte contemporanea. Dopo anni legati al realismo socialista, si è diffuso un movimento in comunicazione con l’arte mondiale. Per iniziativa dell’artista Yusuf Hadzifejzovic, nacque a Sarajevo un coordinamento di artisti da tutte le repubbliche della ex Jugoslavia per tenere vivo questo spirito anche dopo le Olimpiadi, con eventi ogni due mesi, quando un artista veniva invitato a presentare il suo lavoro”.
Il decennio dalla morte del maresciallo Tito, nel 1980, allo scoppio del conflitto tra le repubbliche della ex-Jugoslavia è un periodo che ancora andrebbe studiato a fondo. “Nel 1986 lanciai l’idea di una mostra collettiva per gli artisti che avevano partecipato a quel percorso – racconta Enver – usando il centro di Skenderja che dopo i Giochi gestivo come centro culturale. Abbiamo dato vita alla prima Biennale di Arte Contemporanea a Sarajevo, chiamata Jugoslovenska dokumenta, nel 1987. Non ci saremmo mai aspettati tanto entusiasmo, non solo in città e in Jugoslavia, ma anche all’estero. Questo successo ha dato a Yusuf e a tutti noi l’entusiasmo necessario a preparare l’edizione sucessiva, del 1989. Io sono stato il direttore organizzativo di questi eventi e considerate il successo anche della seconda edizione abbiamo puntato alla nascita anche di una sezione internazionale”.
Tutto, però, si infiamma. “Si sarebbe dovuta tenere nel 1991, ed era stato già nominato Enrico Comi – direttore e fondatore della rivista Spazio Umano a Milano – come curatore della sezione. E’ arrivata la guerra e tutto si è fermato. Gli anni Ottanta sono stati un periodo particolare. Le persone erano come divise. Alcuni avevano già immaginato quello che sarebbe potuto accadere: divisioni, separazioni, guerre. Altri invece, tra cui io, non avrebbero mai immaginato quello che sarebbe avvenuto. Mi sentivo fratello di tutti, unito con gli altri dalla condivisione di una vita serena. Perché non andare avanti insieme? Vedevo solo un periodo critico, ma lo immaginavo superabile”.
Una lacerazione profonda, interiore. Fuori e dentro le case. “Questo dibattito, questo modo diverso di guardare al futuro, non era solo presente a livello politico, ma anche nel privato, all’interno delle stesse famiglie. Mia moglie, Jasminka, e mio figlio Anur, ad esempio, erano pessimisti. Lo hanno intuito prima e mi hanno detto che rispettavano la mia visione, ma avevano paura. Sono andati a Milano, mia moglie lavorava, mio figlio frequentava l’Accademia di Belle Arti e l’Istituto europeo del design. Ho deciso di restare a Sarajevo, come tanti altri cittadini, artisti compresi. Non volevamo mollare, volevamo resistere”. Si resiste in tanti modi, nella Sarajevo assediata.
“Dopo i primi mesi dell’assedio mi sono reso conto del dramma che si consumava attorno a me. Una mattina mi sono svegliato con un’idea: perché non mandare da Sarajevo sotto assedio un invito ai più grandi artisti del mondo, perché con le loro opera potessero contribuire alla nascita del futuro museo dell’Arte Contemporanea di Sarajevo”, racconta Enver. “Abbiamo dato vita a un forum di intellettuali della città, per lanciare questo appello, e dare una risposta all’ingiustizia che soffriva la città. Aiutati dal sindaco dell’epoca, Muhamed Kreseljakovic, siamo riusciti ad arrivare a Venezia nel giugno 1993, in occasione della 50^ edizione della Biennale di Venezia, per promuovere questa iniziativa per la prima volta. E’ stata un’odissea di permessi e documenti, ma alla fine grazie a un volo di aiuti umanitari ci sono riuscito, passando per Ancona e Milano”, ricorda Enver.
“Il primo ad aderire fu Michelangelo Pistoletto, grande artista italiano che non potrò mai ringraziare abbastanza, con la sua opera La porta dello specchio, ed Enrico Comi organizzò a Milano il primo evento, nell’ottobre 1994, legato al progetto che prese il nome di Ars Aevi, anagramma di Sarajevo”, spiega Hadžiomerspahić.
“Il successo di quell’iniziativa ci ha convinti che si poteva fare, intuendo il percorso, ma non immaginando quanto sarebbe stato affascinante. Dal 1994 al 1999 si è andati avanti così, con opere di grandi maestri donate al progetto. Poi, con mio figlio Anur, abbiamo iniziato a rivolgerci ai musei di arte contemporanea per allargare il progetto ad altri paesi, offrendo loro un ruolo di partner. L’Italia è stata molto importante, con figure come l’allora sindaco di Prato Claudio Martini e quello di Venezia Massimo Cacciari. Anche per me, per la mia famiglia, l’Italia ha rappresentato un porto sicuro”.
Ascoltando Enver sembra di vedere un vecchio film, nel quale sfila un paese che ha perso la sua capacità di essere solidale. “Dopo un primo periodo a Milano, grazie all’aiuto di tanti amici, ci siamo trasferiti in Toscana, dove un comitato umanitario si sarebbe occupato di noi. La famiglia Rossi ci ha ospitato, poi quella di un grande industriale pratese, Antonio Lucchesi. Mia moglie si è ammalata di cancro. La famiglia Lucchesi ci ha adottato: ha curato mia moglie, ha aiutato me. Dopo l’operazione di mia moglie, ci hanno sistemato in una casa di Panzano, un piccolo paese. Non posso dimenticare quello che gli abitanti hanno fatto per noi”, ricorda Enver, commuovendosi ancora oggi.
Jasminka se l’è portata via il cancro, ma con il figlio Anur, Enver non molla. “Abbiamo sviluppato un modello secondo cui un museo può invitare dieci artisti di fama internazionale che hanno voglia di sostenere Il progetto. Mai più di due del proprio paese però, per mantenere il respiro internazionale dell’iniziativa”.
Milano, Prato. Nel 1996 Lubjana, in Slovenia. Nel 1997 ancora Venezia, poi nel 1998 Vienna, fino al 1999 quando per la prima volta tutte le opera raccolte vengono esposte a Sarajevo. Nel 2003 è il turno della collezione di Bolognano, nel 2005 ancora Sarajevo, nel 2007 Istanbul. Nel 2012 Podgorica, in Montenegro, l’anno dopo Belgrado. Il prossimo appuntamento è a Saint-Etienne, in Francia. Una collezione con pochi rivali nel mondo: Pistoletto, Kounellis, Castellani, Abramovic, Kapoor, Viola, Kosuth, Boetti, Paladino e tanti altri ancora. Un lavoro immenso, un rete fitta e preziosa, tessuta ogni giorno, per venti anni, da un uomo coraggioso e dai suoi compagni di viaggio.
Uno di questi molto noto.”Tappa fondamentale del progetto è stata, nel 1999, l’incontro con Renzo Piano, nel suo studio di Genova. E’ stato chiaro: come ambasciatore dell’Unesco voleva sostenere questo progetto, espressione della comunità internazionale”, illustra Enver, davanti a un murale che presenta il progetto dell’edificio stabile che a Sarajevo, disegnato dal grande architetto italiano, ospiterà la sede permanente di Ars Aevi.
“Piano è venuto a Sarajevo, in occasione della presentazione delle opera raccolte fino a quel punto, e con il comune di Sarajevo è stato individuato il terreno dove sorgerà iI museo permanente. Un punto simbolico della città dove si incontrano l’anima ottomana, quella austro-ungarica e quella socialista, vicino al museo archeologico e a quello della Rivoluzione. Nel 2000 Piano è tornato a Sarajevo, con gli schizzi iniziali della struttura che ha deciso di progettare, costruire e donare alla città. Realizzando nel frattempo il ponte pedonale che attraversa in fiume Miliajka e porta I cittadini nel luogo dove sorgerà il museo. Il ponte è stato inaugurato nel 2002. Tutto è pronto dal 2005, ma bisogna trovare I fondi. Piano, intanto,ha attualizzato il progetto e nel 2012 l’ha presentato a Irina Bokova, presidente dell’Unesco. Tutto è pronto: progetto, permessi, terreno. Aspettiamo solo di andare avanti”, spiega Enver, con un energia inesauribile.
Non è sempre facile però. Soprattutto in anni come questi, dove come mai negli ultimi decenni la cultura sembra un lusso eccentrico, uno spreco, un drenaggio di risorse da attività più prosaiche. “In questi venti anni ho visto cambiare l’attegiamento delle persone verso di me e verso il progetto – spiega Enver – Anche in Bosnia, c’era scetticismo, mi davano del pazzo. Poi tutti si sono ricreduti, le attestazioni di stima e i titoli per me sono importanti per questo progetto, realizzato grazie all’energia di tanti. Anche a Sarajevo. La mostra di tutte le collezioni raccolte, nel 1999, non sarebbe stata possibile senza l’empatia di tutta la città. Non ci fermeremo, perché questo museo sarà un bene prezioso non solo per Sarajevo”.
Ha combattuto, quando è stato necessario. Anche se fai fatica a immaginare questa persona leggera, delicate, in un momento conflittuale. E’ sempre riuscito a farsi ascoltare, ad andare avanti, a nutrire questa utopia possibile. Ora, dopo venti anni, manca l’ultimo sforzo.
“In tanti abbiamo lavorato a questa idea, da venti anni. Nel 2013 siamo di nuovo alla Biennale, dove tutto è iniziato. Siamo ancora qui, dopo venti anni e alle soglie del centenario della prima guerra mondiale. Scoppiata proprio con l’attentato di Sarajevo. E’ tempo di pensare al futuro, non al passato. Sarajevo è il punto di incontro dei mondi. Socialismo, capitalismo, cristianesimo, ortodossia, islam, imperi ottomano e austro-ungarico, l’impero romano di Occidente e di Oriente. Ecco, siamo arrivati al punto che possiamo fare tutti assieme un nuovo percorso, unirci a Sarajevo per una nuova Europa. Facendo della costruzione di questo museo il simbolo di un nuovo inizio”.