Joseph, 36 anni, racconta le sue emozioni prima di uscire dal carcere di Bollate, dove per nove anni ha scontato la sua pena
testo raccolto da Irene Negri
Domani esco. Prendo le mie cose e lascio queste mura. Uscirò da solo, ma a farmi compagnia nel viaggio verso la mia famiglia avrò le lettere che ho ricevuto da mio fratello ogni mese degli ultimi nove anni e mi hanno seguito nei miei trasferimenti da San Vittore a Bergamo, da Modena a Novara, da Bolzano a Trento e poi ancora a Verona, Vigevano, Como, infine Bollate. Il lettore DVD acquistato grazie al lavoro in cucina invece lo lascio qui, ai miei co-cellini: è il mio regalo di ringraziamento per essermi stati vicini quando ero depresso, per aver ascoltato i miei pensieri suicidi e avermi aiutato a superarli senza affogarmi nei farmaci.
Domani esco e in testa ho solo mia madre. Avrei voluto poter sentire la sua voce un’ultima volta prima che morisse, poterle spiegare che io l’avrei chiamata ogni mattina ed ogni sera ma non si poteva, non si può, le regole dicono che le telefonate sono permesse solo previa consegna della fotocopia del contratto telefonico e da noi i contratti non si fanno, in Nigeria questo tipo di burocrazia non esiste.
Una parte di me è arrabbiata con il sistema carcerario italiano, l’altra con me stesso, e un’altra ancora ha paura, tremendamente paura di uscire perché uscire significa avere di nuovo la possibilità di fare scelte e potenzialmente di sbagliare.
Sono arrabbiato con il sistema e chi lo governa perché per nove anni -un quarto della mia vita- ha punito non solo me, ma anche i miei cari. Perché mia cugina è venuta dagli Stati Uniti apposta per vedermi ma nonostante abbiamo lo stesso cognome non l’hanno lasciata entrare in carcere, mancava la dichiarazione dello stato di famiglia; perché il numero di chiamate e visite mensili concesse non è mai abbastanza per sostenere mia moglie nella crescita dei nostri figli; perché di fatto sono stato obbligato a perdere tutti i miei amici, a ritrovarne solo fra chi è considerato mio simile.
E poi sono arrabbiato perché io ho sbagliato, lo so; ma quegli stessi crimini che mi hanno condannato io li ho visti compiuti da guardie carcerarie – senza conseguenze.
Ho sbagliato, ma il rumore del ferro colpito con forza tre volte al giorno vicino alle mie orecchie che ruolo ha nel tentativo di fare di me una persona migliore?
Come possono lo scherno, la volgarità, la violenza delle persone incaricate di sorvegliarmi porsi ad esempio per la mia futura condotta? Qualcuno si è mai chiesto che effetto fa l’isolamento prolungato sulla mente di un uomo già turbato da sé stesso?
Ho fatto un casino, lo ammetto. Non sono come certi altri che si professano innocenti dal primo all’ultimo giorno – e chissà, magari lo sono davvero. Non ho mai definito quel che mi ha portato qui “un incidente” o “un errore” come fanno in tanti, anche se forse in un certo senso lo è stato. E non sono nemmeno uno di quelli che in cella hanno trovato la voglia di raccontarsi al mondo. Ne ho conosciuti un paio così: uno era un ex soldato, minacciato di morte dal suo stesso governo per via di quanto aveva appreso su narcotraffico e finti attacchi terroristici, che ha poi scritto un libro pazzesco; e l’altro è riuscito addirittura a finire in un servizio televisivo smascherando proprio i comportamenti disumani di certe guardie carcerarie tramite l’uso di un registratore nascosto. Li ammiro, ma al contrario di loro io in carcere ho imparato soprattutto a rendermi invisibile, a scomparire quanto più possibile in quella convivenza forzata con persone da me diverse per etnia, lingua, estrazione sociale, personalità, in una sorta di integrazione della sopravvivenza costretta in spazi esigui.
Dopo tutti questi anni, se non altro, la mia visione della vita è piuttosto chiara. A me stesso rinfaccio la stupidità delle mie azioni. Di me stesso condanno l’avidità e l’egoismo che le hanno motivate.
Per me stesso rimpiango di non riuscire ad essere come un mio vecchio compagno del corso di italiano, che nella sua sentenza ha trovato un’opportunità e un’ispirazione. “Il carcere, Joseph, ti aiuta a diventare paziente, tollerante verso tutti; ad essere contento del poco che hai con più serenità” -mi ha scritto di recente-. “È come una scuola, e dipende solo da te essere promosso o bocciato”. Era un ragazzo speciale, perfino quando è stato espulso è riuscito a prenderla bene. “L’importante è catturare un po’ della luce del sole”, mi diceva sempre quando mi perdevo in spirali di pensieri pericolosi.
Mi manca. Da domani, come lui mi mancheranno anche le volontarie del gruppo di segretariato sociale che così tante volte mi hanno regalato il tempo di una chiacchierata; gli amici della squadra di calcio; la mia ultima educatrice, la psicologa, il Don e tutti quelli che per noi lavorano tanto e lavorano bene, restituendo un valore agli anni più lunghi delle nostre vite.
Ma da domani potrò anche tornare a vivere con la mia famiglia e lavorare per mantenerla, chiamare chi voglio, fare volontariato, andare in ambasciata e rinnovare il mio passaporto di persona, scrivere una mail a mia cugina, andare a trovare mio fratello e insieme, un giorno, far visita alla tomba di nostra madre, prenotare un appuntamento dal dentista, dimostrare che è impossibile che io abbia parcheggiato in divieto di sosta mentre ero in carcere, organizzare una festa di compleanno per mia figlia, mandare lettere divertenti ai miei co-cellini, riconnettermi al mondo reale – cercando di non avere paura, cercando di non sbagliare.