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È stato reso noto il testo dell’accordo con il Fondo Monetario Internazionale dell’agosto scorso. Le risorse per il budget del 2017 sono state essenzialmente trovate, ma restano dubbi per i prossimi due anni. Occorre trovare 15 miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo non nascondono il loro discontento.
Di Jean-Pierre Séreni, tratto da OrientXXI
Il 17 gennaio 2017, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha pubblicato nell’indifferenza generale il testo dell’accordo siglato con l’Egitto nell’agosto 2016; un articolo sbrigativo da parte del quotidiano ufficiale Al-Ahram , poco o nulla da parte della stampa internazionale e qualche sporadico accenno nella stampa del Golfo. Eppure i contenuti del Memorandum of economic and financial policies (MEEP) sono cruciali: il Fondo Monetario Internazionale concede all’Egitto un prestito di oltre 12 miliardi di dollari su 3 anni (da effettuarsi in 6 tranche), vincolato all’introduzione da parte del debitore di riforme strutturali che intervengano sulla politica monetaria, di bilancio, sociale e sulle condizioni per gli investitori.
La mancata messa a punto di queste riforme comporterebbe la sospensione dei pagamenti, come accaduto all’Ucraina nel 2016.
La brutalità del regime militare nel cercare di sradicare i Fratelli Musulmani dalla vita politica del Paese si estende ora anche alla politica economica. Se Hosni Mubarak si limitava a misure di facciata e a strategie di containment, il suo successore si distingue per la determinazione delle sue posizioni. “Dobbiamo correggere gli errori del passato per rimetterci in carreggiata. Questo cambiamento è indispensabile alla sopravvivenza dello Stato sociale”, ha spiegato il presidente Abdel-Fattah Al-Sissi il 17 gennaio ai caporedattori di tre quotidiani cairoti durante un’intervista. “Se il governo avesse continuato ancora con la politica economica del passato, la situazione sarebbe ancora più difficile di quanto già non lo sia”.
Il crollo della lira egiziana
E difficile lo è sicuramente. La liberalizzazione totale del tasso di cambio, sancita con un tratto di penna il 3 novembre scorso, ha rapidamente portato a un deprezzamento di oltre il 100% della lira egiziana rispetto al dollaro, passando in una notte da 8,8 a 18 lire egiziane per un dollaro. “Il tasso di cambio si è deprezzato un po’ di più di quanto ci aspettassimo”, ha eufemisticamente ammesso il “Mister Egypt” del Fondo, Chris Jarvis, un economista britannico che in passato ha lavorato come assistente di Dominique Strauss-Kahn quando questo era direttore generale del FMI, occupandosi della redazione dei suoi discorsi ufficiali.
In attesa della ripresa, la Central Bank of Egypt (CBE) dovrebbe disporre quest’anno di 12 miliardi di dollari di prestiti da parte del FMI, della Banca Mondiale, di altre organizzazioni multilaterali e sull’euromercato. Non è un caso invece che né gli Stati Uniti né le monarchie del Golfo (con l’eccezione degli Emirati Arabi Uniti) abbiano preso parte a questi pacchetti di aiuti, a differenza delle grandi capitali europee.
La quantità di riserve in valuta accumulate – o in via di accumulazione – permetterebbe in teoria di far funzionare il “nuovo” mercato dei cambi e fungere da scudo alla lira egiziana; tuttavia, le risorse necessarie per i prossimi due anni sono ancora in sospeso, condizionate appunto al rispetto degli impegni indicati nel Memorandum.
Il prezzo da pagare per il governo egiziano, anche tenendo conto della situazione securitaria, è molto alto.
Il crollo della valuta nazionale è stato pagato dal consumatore egiziano. Nel dicembre 2016, le ultime stime note indicavano un aumento del costo della vita del 30%. E gli esperti del FMI non prevedono un rallentamento dell’inflazione prima del secondo trimestre dell’anno. Gli aiuti ai circa 8 milioni di poveri e invalidi ufficialmente registrati sono sì stati aumentati, ma se si considera che il tasso di povertà potrebbe attestarsi intorno al 35% – come ritiene la consulente del CAPMAS (l’istituto di statistica egiziano) Heba al-Laithy -, sono più di 20 milioni coloro che avrebbero affrontato la spirale inflazionaria senza alcun sostegno da parte del governo, se non un piccolo gesto simbolico a favore di quei pochissimi cui si applicano le tasse sui redditi.
Le medicine, il cui prezzo è regolamentato per legge, non dovevano essere interessate da nessuna misura. Tuttavia, le minacce di sciopero da parte dei farmacisti e di blocco delle importazioni dell’industria farmaceutica hanno indotto il Ministero della Salute a cedere, autorizzando un aumento medio del 50%. I carburanti sono rincarati del 35%, ma lo Stato li sovvenziona ancora fino al 44%. Lo zucchero (+ 14%) e l’olio da tavola (+20%) – benché sussidiati – stanno diventando sempre più costosi, mentre nuovi aumenti sono attesi qualora le sovvenzioni fossero ridotte per alleggerire la pressione sul bilancio pubblico.
Il solo settore che resiste ancora è quello dell’istruzione universitaria, il quale – secondo il Ministero dell’Istruzione Superiore – non dovrebbe aumentare le tasse, salvo ovviamente per le università private.
Deficit di bilancio, l’altra piaga
A causa del deficit di bilancio, l’altra piaga delle finanze egiziane, nessuna politica di mitigazione sarebbe possibile se il governo vuole davvero rispettare gli impegni presi, ovvero portarlo dal 12,1 del PIL per l’anno fiscale 2015-2016 al 4,7% per l’anno fiscale 2020-2021 e ridurre il debito pubblico dal 95 al 78% nel corso dello stesso periodo.
La stretta riguarda soprattutto il taglio delle spese (abbassamento della massa salariale e dei sussidi a carburanti e prodotti alimentari) e non l’aumento delle tasse.
La storia finanziaria dell’Egitto può sollevare dei dubbi sulla genuinità della volontà di “tenere in ordine” i conti pubblici quando un buono del tesoro a 3 mesi paga il 19% di interessi, ma nonostante la classe politica si mostri più virtuosa rispetto al passato, il paese è ancora lontano dall’uscita dalla crisi. Ci vorranno ancora molti sacrifici prima che l’Egitto sia in grado di finanziarsi in modo autosufficiente, non attraverso prestiti stranieri, ma grazie alle esportazioni, il turismo e il pagamento dei pedaggi di transito dal canale di Suez.
Il deficit di parte corrente con il resto del mondo (tra 6 e 7% del PIL) non sarà facile da ridurre: il deficit commerciale resterà elevato almeno fino al 2018-2020. “Le principali componenti del deficit di conto corrente sono al momento sensibili ai fattori di prezzo. Le difficoltà del turismo (20% delle entrate correnti nel 2010) sono sostanzialmente legate a fattori securitari e le prospettive assai caute sull’andamento futuro del commercio mondiale peseranno sugli introiti del canale di Suez (9% delle entrate). Infine, il crescente deficit energetico (3,6 miliardi di dollari nel 2016, ossia il 20% del debito di parte corrente, contro un surplus di oltre 5 miliardi di dollari nel 2010) difficilmente si riassorbirà prima del 2018, quando i giacimenti di gas di Zohr et del Delta del Nilo saranno operativi”, nota Pascal Devaux della BNP.
La fiducia resta una merce rara nella società egiziana, anche fra le sue élite.
Il 19 gennaio 2017, dopo un boom che durava dalla svalutazione del 3 novembre, la Borsa del Cairo ha avuto il suo “giovedì nero”, facendo perdere ai suoi azionari più di un miliardo di dollari in una sola giornata, tanto che la seduta è stata chiusa in anticipo.
L’Egitto è stato il quinto Paese, dopo il Marocco, la Tunisia, la Giordania e l’Iraq, a firmare un accordo con il FMI nel 2016, per un ammontare complessivo sulla regione di 21 miliardi di dollari. Un altro segno della crisi che questi Paesi affrontano sei anni dopo la Primavera araba.