Bucarest e non solo: il popolo rumeno non vuole tornare indietro
di Antonio Damicis, da Bucarest
Primo mercoledì di febbraio. Un giorno come tanti altri. Arrivo in ufficio e, come spesso capita qui a Bucarest, devo fare i conti con l’enorme sbalzo di temperatura tra l’esterno e l’interno degli edifici. Meno cinque fuori, più venticinque dentro.
Mi svesto. Cappello, sciarpa, scaldacollo, cappotto, maglione. Rimango in T-shirt e mi godo la temperatura estiva dell’ufficio.
Mi guardo intorno e scorgo qualcosa di strano. Alcuni fra i miei colleghi vestono completamente di nero.
“Siamo in lutto per la Romania”, mi dice Emilia.”Hai saputo del decreto di mezzanotte?”, interviene Valentin.
In effetti, ero al corrente che il governo stesse discutendo la possibilità di concedere una qualche forma di indulto seguendo una raccomandazione europea che ingiunge la Romania di risolvere l’annosa questione del sovraffollamento delle carceri.
Il governo dominato dal PSD, il Partito Social-Democratico rumeno, ha però sfruttato la raccomandazione dell’UE e, in piena notte, ha emesso un decreto che oltre all’indulto, depenalizza la corruzione e l’abuso di ufficio fino al limite di circa 50mila euro.
Un decreto, quindi, che oltre scavalcare il Parlamento, sperava di passare inosservato di fronte all’opinione pubblica, aiutando a bloccare i processi in corso nei confronti politici indagati a vario titolo per reati di corruzione.
“Stasera scendiamo in piazza! Non possiamo accettarlo, pensano di prenderci in giro in questo modo! Credono davvero siamo così stupidi?”, aggiunge Roxana.
Devo ammettere che nei primi anni in cui giunsi in Romania, avevo sì subito conosciuto tanta gente splendida, tanti ragazzi straordinari, preparati e pieni di energia, pronti a lavorare sodo pur di riuscire nella vita, ma era sempre come se gli mancasse la giusta determinazione nel ribellarsi ai soprusi.
Quasi come fossero stati educati ad accettarli, a passarci sopra, a non osare mai attaccare l’ordine costituito e chi lo gestisce. Da qui l’accettazione tacita delle piccole tangenti, dei regalini volti anche semplicemente ad evitare anche a priori di mettersi qualcuno contro.
Il PSD è parte di questo sistema. È l’unico partito veramente organizzato in Romania. Erede diretto del disciolto Partito Comunista Rumeno, è capillarmente presente in ogni distretto, città e villaggio. Li governa attraverso baroni locali, spesso ricchi ed influenti.
L’opposizione, escluse rare eccezioni, non si è dimostrata migliore. Inoltre è disorganizzata ed eternamente divisa. Riesce spesso a vincere le elezioni presidenziali grazie ad un’affluenza alle urne maggiore, mentre perde puntualmente quelle parlamentari dominate da un PSD che riesce sempre a mobilizzare più elettori.
Il PSD, di Social-Democratico ha solo il nome. È assistenzial-populista dal punto di vista economico, ma conservatore ai limiti della reazione dal punto di vista sociale. La base dell’elettorato è soprattutto la popolazione delle zone rurali, spesso poco istruita, abituata a ricevere piccoli favori in cambio della loro massiccia presenza al voto.
Detto ciò, non sorprende che i dirigenti del PSD, tra cui spicca Liviu Dragnea, già indagato per presunti brogli elettorali nel suo distretto, abbiano pensato che anche questa volta l’avrebbero fatta franca. Di certo avevano già messo in conto che qualcuno avrebbe alzato la voce e che l’opposizione avrebbe disorganizzatamente gridato allo scandalo.
Magari avrebbero ricevuto anche qualche timido isolato rimprovero da parte di qualche paese UE, ma poi tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, la gente avrebbe abbassato la testa come sempre e accettato il nuovo status quo. Tutto vero, se non fosse che i rumeni, durante questi anni sono cambiati. E son cambiati tanto.
Come spesso capita anche ad altre latitudini, la gente comune è spesso già un passo avanti rispetto alla classe politica.
I giovani rumeni, l’attuale generazione tra i venti e i trent’anni è molto diversa da quella che trovai quando arrivando qui in Romania circa dieci anni fa.
Non hanno vissuto il comunismo, stanno viaggiando, stanno incontrando i loro coetanei europei, sanno di non essergli inferiori, hanno ascoltato tante voci oltre a quella inevitabilmente impaurita e asservita dei propri genitori. Infine, cosa forse più importante, non stanno solo ad obbedire, ma desiderano che la propria voce sia ascoltata.
I loro genitori, trent’anni prima si erano ribellati ed erano morti per un ideale di libertà. Erano stati eroici, ma avevano certamente raggiunto il punto di non ritorno. Erano oppressi da un regime che li aveva ormai ridotti alla fame.
Questi ragazzi, invece, almeno in teoria hanno già tutto. La libertà di viaggiare, una vita dignitosa e, in città come Bucarest, spesso anche un ottimo lavoro ben retribuito.
“Sì – rispondo alla mia collega Roxana. – Loro credono davvero che siate ancora stupidi, ma sono fuori dalla realtà”.
La nuova generazione ha preso coscienza della propria forza, trascinando finalmente con sé anche i più timidi trenta-quarantenni. Questi ragazzi hanno cominciato a protestare contro gli abusi della politica prendendo sempre più coscienza della propria forza ed influenza.
Il primo banco di prova furono le proteste di qualche anno fa contro lo sfruttamento del bacino minerario di Rosia Montana. Una montagna piena di risorse auree, svenduta ad un colosso straniero che avrebbe sventrato la montagna, distrutto la natura circostante e trasferito forzosamente centinaia gli abitanti dei villaggi della zona. Le manifestazioni durarono per diversi giorni, estendendosi da Bucarest a Cluj, fino a Timisoara e ad altre città più piccole con il risultato che il governo dovette rinunciare al progetto revocando la concessione di sfruttamento delle miniere.
Un anno e mezzo fa, invece, il grave incendio alla discoteca Collective che causò decine di morti, riportò ancora una volta la gente in strada, questa volta per protestare contro le falle nel sistema dei controlli della sicurezza dei locali pubblici, spesso alimentate da piccole e grandi tangenti elargite agli attori decisionali del settore statale e parastatale.
L’onda emotiva di quelle proteste, i successivi arresti del sindaco del settore 3 di Bucarest e le dimissioni dell’allora Primo Ministro Victor Ponta, rese i manifestanti ancora più coesi e finalmente davvero consci della propria forza.
È proprio questa coesione e questa ritrovata o, meglio, nuova coscienza della società (e specialmente dei giovani romeni) che il PSD ha dimenticato o ignorato. La sera successiva al decreto, quasi centomila persone si erano già riversate nel centro di Bucarest per manifestare.
Numero che è poi aumentano sera dopo sera, fino ad arrivare ai 250mila manifestanti di domenica in Piazza Victoriei, quando ormai il Governo aveva annunciato l’intenzione di abrogare il decreto. Insieme a loro, i migliaia di partecipanti alle manifestazioni di quasi tutti i capoluoghi di distretto.
Da Bucarest a Cluj, Da Brasov a Timisoara, da Iasi a Constanta, quasi mezzo milione di rumeno erano per strada, sfidando le temperature polari, per protestare contro quello quello che era stato ribattezzato come il “decreto notturno”.
La gente continuava a scendere in piazza perché non si fidava. La semplice promessa di abrogazione, per loro, non era sufficiente.
Eccezion fatta per un tentativo alquanto amatoriale di infiltrazione di alcuni ultras che hanno tentato di attaccare la gendarmeria durante la prima sera di proteste, le manifestazioni sono state pacifiche, festose, piene di slogan e cartelli originali.
In occasione delle breve violenze degli ultras vi è stato, addirittura, un gruppo di manifestanti si è interposto tra gli gli stessi ultras e i gendarmi al fine sia di proteggere l’incolumità di questi ultimi, ma anche e specialmente per dimostrare che il loro unico obiettivo era la protesta pacifica e che non avrebbero permesso a nessuno di fornire un’immagine fuorviante della manifestazione.
Non rumeni contro rumeni, quindi, ma rumeni uniti contro l’immoralità di un sistema politico che li crede ancora capaci di accettare tacitamente che un’oligarchia protesa a legiferare a proprio favore incontrastata.
Naturalmente non sono mancare le giustificazioni da parte del Governo. Dal fatto di dover dare risposta ad una raccomandazione dell’Unione Europea, fino al dichiararsi perseguitati dalla magistratura e specialmente dal DNA, l’organismo anticorruzione rumeno, che negli ultimi anni ha arrestato tanti politici (non solo del PSD) sia a livello locale che a livello nazionale.
Le manifestazioni a difesa di Rosia Montana, quelle del post-Collective, fino ad arrivare alle proteste degli ultimi giorni hanno tutte un comun denominatore: i rumeni scendono in piazza per difendere dei principi morali.
Essi, infatti, non protestano per chiedere salari migliori, più posti di lavoro, misure contro la povertà o una qualsiasi delle tante richieste per le quali in tanti altri paesi ci sarebbero già state diffuse sommosse popolari.
Stanno scendendo in piazza per la difesa della natura prima (nel caso Rosia Montana), poi per chiedere il rispetto delle regole (incendio al Collective), fino ad arrivare a rivendicare, anche urlandolo a squarciagola, di non essere più disposti ad accettare l’istituzionalizzazione e la cronicizzazione della corruzione.
Si tratta di una rivoluzione dei principi. Principi che il popolo rumeno non intende più negoziare. Principi sui quali il nuovo popolo rumeno desidera appassionatamente costruire il suo futuro.