Resistenza indigena

Intervista a Vicky Tauli Corpuz, Relatrice Speciale dell’Onu al Forum Indigeno dell’IFAD

di Francesco Martone

Incontriamo Vicky Tauli Corpuz, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite a Roma al margine della riunione del Forum Indigeno dell’IFAD (International Fund for Agricultural Development) ed alla vigilia della sua prima missione negli Stati Uniti.

Vicky ci racconta la sua storia di donna indigena della Cordillera filippina, e condivide le sue considerazioni sulla situazione attuale dei popoli indigeni, le aggressioni, la resistenza, il ruolo centrale della conoscenza ancestrale di quei popoli nella tutela della Madre Terra. Ecco quello che ci siamo detti.

Per cominciare, ci puoi dire qualcosa sulla tua storia, come sei arrivata a diventare Relatrice Speciale ONU sui diritti dei popoli indigeni?

Sono stata un’attivista fin da adolescente quando iniziai ad impegnarmi per la causa dei popoli indigeni. Stavamo allora lottando contro la diga del Chico, nella mia terra. nella regione della Cordillera nelle Filippine, ed allora mi resi conto che avevamo bisogno di coinvolgere il mondo esterno. Non avendo molte chance di contrastare da soli la Banca Mondiale molti di noi attivisti iniziammo a pensare di creare una rete di solidarietà a livello internazionale per riuscire ad ottenere la cancellazione del progetto. Stiamo parlando degli anni ’70. Abbiamo lavorato quindi con gruppi di esperti sui diritti dei popoli indigeni, già attivi su un altro progetto della Banca mondiale, l’autostrada Polonoroeste in Amazzonia brasiliana. Era il periodo della presidenza di Robert McNamara alla Banca mondiale, che a seguito delle nostre mobilitazioni decise di mettere a punto una sua politica sui popoli indigeni. Allora mi resi conto che la lotta dei popoli indigeni è una lotta tutta particolare, non necessariamente presa in dovuta considerazione dal mondo “dominante”. Iniziai così a partecipare ai primi degli anni ’80 ai negoziati per la stesura della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, (UNDRIP). Credo che fosse nel 1985 quando partecipai alla prima sessione di lavoro all’Onu. Fu subito chiaro che non potevamo circoscrivere il dibattito sui diritti dei popoli indigeni al solo Consiglio Onu sui diritti umani di Ginevra, dovevamo rivolgerci a tutto il sistema delle Nazioni Unite. Lo facemmo in occasione della Conferenza di Rio su Sviluppo ed Ambiente nel 1992 e nella Conferenza Onu sulle donne, prima attraverso l’ong Cordillera Women Resource Center e poi con l’Asian Indigenous Women Network. Ho poi presieduto il Forum Permanente sui Popoli Indigeni all’Onu 2005-2009 collaborando con il Meccanismo di Esperti sui Popoli Indigni e con l’allora Relatore Speciale Rodolfo Stavenhagen che nel 2001 svolse la sua prima visita in assoluto proprio nelle Filippine. La organizzammo con la mia organizzazione Tebtebba, e trovammo che il contributo del relatore speciale fosse di grande aiuto per la nostra lotta nelle Filippine. Una volta finito il mio mandato come Presidente del Forum Permanente decisi di tornare a lavorare nella mia comunità, con Tebtebba. Ed invece alcune mie amiche attiviste indigene dalle Filippine e dall’Indonesia mi proposero di candidarmi come Relatrice Speciale, e a forza di insistere mandai la mia candidatura. Eravamo in diciotto, molti di loro con lauree di alto livello o dottorati, io invece venivo dall’attivismo di base, senza lauree e non pensavo di potercela fare. Fui selezionata tra i tre intervistati e nel giugno 2014 venni scelta per la mia esperienza di campo. Ora sono quindi nel mio terzo anno e il mio mandato verrà riconfermato per altri tre anni, fino al 2020.

Qual è il ruolo di un relatore speciale?

La figura del relatore speciale si colloca all’interno delle procedure speciali previste dal Consiglio Onu sui Diritti Umani di Ginevra. Siamo esperti indipendenti scelti dalle Nazioni Unite e svolgiamo il nostro compito su base volontaria. Ci muoviamo su due canali, quello della valorizzazione delle buone pratiche nell’applicazione dei diritti umani, e quello dell’identificazione degli ostacoli per il rispetto e l’attuazione, nel mio caso, dei diritti dei popoli indigeni, per poi formulare delle raccomandazioni. Facciamo visite nei paesi su invito dei governi, rivolgiamo appelli ai governi dei paesi nei quali vengono violati i diritti, e possiamo anche produrre dossier tematici su questioni che ritengo di rilevanza. Ad esempio io mi sono concentrata finora sulle donne e le bambine indigene, sulle politiche di conservazione ambientale, e sugli investimenti e l’impatto sui diritti umani dei popoli indigeni (nei giorni precedenti l’intervista Vicky era stata in audizione al Parlamento Europeo sulla questione delle responsabilità delle imprese per il rispetto dei diritti umani NdA).
E poi presento questi rapporti al Consiglio a Ginevra ed all’Assemblea Generale dell’Onu a New York. Quindi sono nella posizione di poter davvero monitorare quel che accade ai popoli indigeni e poi rivolgermi agli stati, alle imprese ed alle ong.

Sei in procinto di andare negli Stati Uniti, è la prima volta che un Relatore Speciale ONU sui diritti dei popoli indigeni va in quel paese.

Si lo scorso anno chiesi all’amministrazione Obama di invitarmi. Avevo parlato con David Archambault, il capo della nazione sioux di Standing Rock, in lotta contro la Dakota Access PipeLine (DAPL) che mi aveva invitato. Per poter però scrivere un dossier per il Consiglio dovevo essere invitata ufficialmente dal governo, che in effetti mi invitò e concordammo di svolgere la visita appena si fosse insediata la nuova amministrazione. La mia visita sarà centrata sul tema dell’energia e dell’industria estrattiva (petrolio, gas, carbone, uranio) e l’impatto sui popoli indigeni. E poi presenterò a settembre di quest’anno un rapporto al Consiglio Onu Sui Diritti Umani.

Nella tua esperienza da attivista ed ora da Relatrice Speciale, quali sono a tuo parere i temi più critici per i diritti dei popoli indigeni? La questione preponderante immagino sia il conflitto tra modello di sviluppo e diritti all’autodeterminazione.

Uno dei temi centrali per i popoli indigeni è quello relativo all’accesso ed al controllo della terra, dei territori e delle risorse, perché questo è quel che definisce i popoli indigeni attraverso la relazione con la loro terra. Eppoi il diritto a poter decidere le proprie modalità di sviluppo economico, sociale e culturale, parte integrante del nostro diritto all’autodeterminazione. Il punto è che molti stati-nazione hanno scelto un modello di sviluppo fondato sull’estrattivismo, il consumo, una cultura dell’individualismo e della competizione che è in netta antitesi con la nostra. Vorremmo governarci, poter decidere come gestire i nostri territori e le nostre risorse. Una cosa che non è molto gradita agli stati, che invece vorrebbero esercitare il loro controllo sulle nostre terre e le risorse, favorendo l’accesso a imprese o imponendo essi stessi progetti di sviluppo, infrastrutture, tipo autostrade o dighe…
E lo fanno senza neanche consultarci, e così si generano i conflitti perché abbiamo diritto almeno ad essere interpellati.

Già, questo è un punto chiave, quello del consenso previo libero informato al quale si è richiamato papa Francesco, che avete incontrato al Vaticano e che in quell’occasione si è espresso senza mezze parole al riguardo.

Si, un bell’incontro quello del 14 febbraio, organizzato dall’IFAD nel quale Francesco ha parlato esplicitamente della questione del consenso previo libero ed informato dei popoli indigeni e dell’obbligo di rispettare tale diritto. Ha anche parlato dell’importanza della scienza e della tecnologia, ma anche riaffermato la necessità di una regolamentazione al fine di assicurare che l progresso non vada contro i diritti ed il benessere dei popoli.

Una delle narrative che si sono sviluppate intorno al ruolo dei popoli indigeni riguarda il loro contributo concreto, con soluzioni concrete ai problemi ambientali globali, ad esempio ai cambiamenti climatici e la tutela della biodiversità. Qual è il livello di consapevolezza da parte dell’ “establishment” del ruolo positivo e del contributo che i popoli indigeni possono fornire per proteggere l’ambiente globale attraverso la loro conoscenza tradizionale? Pensi ci sia stato qualche progresso?

Certamente, ad esempio la Convenzione sulla Biodiversità riconosce esplicitamente il contributo e l’importanza della conoscenza tradizionale dei popoli indigeni nella tutela e l’uso sostenibile della diversità biologica e l’obbligo di rispettare le pratiche tradizionali d’uso delle risorse. Anche nel quadro della Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici, alla Conferenza delle Parti tenutasi lo scorso anno a Marrakech si è deciso di creare una piattaforma per lo scambio di buone pratiche nell’applicazione della conoscenza tradizionale dei popoli indigeni nei programmi e progetti di mitigazione ed adattamento. Inoltre, la UNDRIP (The United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples) contiene articoli sul rispetto della conoscenza e delle culture tradizionali. Quindi certo sulla carta questo riconoscimento c’è, mentre nella realtà la strada è ancora lunga. Siamo sempre alla solita storia, i governi vorrebbero appropriarsi della nostra conoscenza tradizionale, imponendo la loro sovranità, i loro diritti di proprietà intellettuale, Questo è sbagliato, la conoscenza tradizionale è stata sviluppata dai popoli, non dagli stati, sono i popoli che la detengono e la mettono in pratica, e gli stati dovrebbero sostenerci, per rispettare anche i nostri diritti culturali. Non ce ne sono molti che lo fanno, ci sono leggi, ma in pratica non succede molto, ance perché le imprese vorrebbero brevettare la nostra conoscenza delle piante e del patrimonio genetico, e ci troviamo obbligati a lottare ad ogni livello. Cosa difficile perché non ci possiamo permettere questo lusso, visto che la nostra prima preoccupazione è quella di sopravvivere.

Infatti, al di là della retorica e dei buoni proposti, la situazione nei territori indigeni è sempre più grave, basti pensare all’ultimo rapporto di FrontLine Defenders sui difensori dei diritti umani, dove si denuncia che la grande maggioranza degli oltre 200 attivisti uccisi nel mondo nel 2016 è composta da leader indigeni o contadini. Come dovrebbe essere affrontata questa emergenza?

Quel di cui soffrono i popoli indigeni è la repressione degli sforzi per asserire il proprio diritto all’autodeterminazione ed alla terra (nel corso della sua penultima visita a Roma, Vicky ha incontrato la figlia di Berta Caceres, Bertita, leader indigena honduregna assassinata un anno fa per la sua lotta di resistenza contro la diga di Agua Zarca in territorio Lenca N.d.A.). Una repressione dovuta al fatto che questi atti di resistenza vanno contro gli interessi delle imprese transnazionali ed anche dei governi degli stati che vorrebbero appropriarsi delle loro terre. La risposta degli stati è quella della forza delle armi o la criminalizzazione. Allora la comunità internazionale deve decisamente intensificare gli sforzi per proteggere i difensori dei diritti umani e dei popoli indigeni e vigilare come provo a fare nell’ambito del mio mandato istituzionale. L’altra questione da affrontare riguarda il fatto che i diritti dei popoli indigeni sono di natura collettiva, sono diritti umani collettivi, e quindi non solo di una persona che si mobilita e viene minacciata, visto che è tutta la comunità che si mobilita ed è sotto minaccia. Questo mondo invece è sempre centrato sull’individuo, sul “testimone” ed il rischio è quello di trascurare la sua comunità che lotta e resiste.

Ed in particolare andrebbe tenuta in dovuta considerazione la situazione particolare delle donne indigene. Cosa significa essere donna indigena ed attivista in un mondo dominato dai maschi?

Basta semplicemente dimostrare che siamo donne, e ci possiamo organizzare, è la nostra responsabilità quella di contrastare il patriarcato. In fondo sono le donne indigene le più esposte ad esempio all’impatto dei cambiamenti climatici, sono loro che procurano il cibo, l’acqua. Sono loro che si prendono cura delle loro famiglie e le loro comunità, si accollano un gran peso e ciononostante il loro ruolo non è sufficientemente riconosciuto.

Da noi, nel mondo cosiddetto “occidentale” c’è una tendenza ad innamorarsi delle rivoluzioni altrui, e le lotte indigene ci esortano ad abbandonare un approccio paternalista, se non neocoloniale. Cosa suggeriresti agli attivisti ed attiviste qua in Italia per una “decolonizzazione” dell’approccio alla solidarietà?

Anzitutto va chiarito bene cosa significa “solidarietà” riconoscendo i ruoli e le capacità di ognuno, con senso di equità. Non ci sono salvatori o messia che porteranno noi alla salvezza. C’è bisogno davvero di “decolonizzare” le menti, e riconoscere che noi abbiamo la nostra “agency” (la capacità di essere attori politici e sociali e rivendicare i propri diritti (N.d.A.). Quello che va fatto è contribuire a rafforzare quella agency, non essere un ulteriore fardello o imporci soluzioni o approcci. Non ci piacciono quegli attivisti certamente benintenzionati, ma che credono di saperne molto di più di noi. C’è chi va in cerca di buone cause, ma non può farlo sulle spalle di chi è direttamente coinvolto, di chi ha diritto di decidere come meglio esercitare i propri diritti. Ad esempio a Standing Rock ad un certo punto si sono presentati degli attivisti senza aver concordato con la comunità, hanno fatto le loro cose, senza coordinarsi. E le autorità native sono assai determinate ad esempio a continuare a usare metodi nonviolenti, senza provocazioni.

Un’ultima domanda. So che tu tieni molto, come del resto tutti gli attivisti e le attiviste indigene a tornare il più possibile alla tua comunità. Come ti senti quando torni a casa?

Per me è molto importante che sappiano quel che faccio. E non solo. Ti racconto una storia: la mia comunità Igorot mi ha dato una coperta che ho consegnato a Francesco, e sono stati così contenti di vedere la coperta fatta da loro nelle mani del Pontefice! È un modo per connettere la comunità, e la loro esperienza ai più alti livelli. Purtroppo ora il mio incarico non mi permette di andare tanto spesso quanto vorrei, ma provo ad esserci nelle festività, quando ci sono cerimonie comunitarie, matrimoni, perché è quando ci incontriamo tutti e tutte. Scalda il cuore mantenere vive quelle connessioni.