Da lunedì 13 febbraio sono ripresi pesanti bombardamenti da parte dell’aviazione del regime siriano e del suo alleato russo nella città e nella provincia di Daraa, la zona meridionale al confine con la Giordania, considerata la culla della rivoluzione siriana ed ormai fuori dal controllo del regime dal 2013.
Di Marta Bellingreri
A farne le spese sono le strutture ospedaliere, 6 in un solo giorno quelle distrutte, che servivano centinaia di migliaia di persone nella zona.
La prima persona che contattiamo per assicurarci che stia bene, insieme alla sua famiglia e ai suoi colleghi, è il Dottor Khalil. Medico siriano di Daraa, laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Aleppo, Khalil non ha mai lasciato la Siria dall’inizio della rivoluzione.
Non ha potuto specializzarsi in Chirurgia perché la dura repressione del regime che stravolgeva il suo paese lo ha portato a tornare a Daraa dalla sua famiglia per operare direttamente sul campo.
Mentre scriviamo, si trova con la moglie e il figlio sotto i bombardamenti, come è stato negli ultimi anni. Ma soprattutto si trova accanto ai suoi colleghi medici in prima fila, turno dietro turno, senza pausa, a cercare di curare i feriti da bombardamenti e scontri. Oltre ai raid aerei infatti, anche attorno alla capitale, Damasco, gli scontri nelle vicine campagne contro il gruppo Isis ed affiliati, hanno causato diversi morti e feriti tra i gruppi dell’opposizione armata e l’Esercito Libero.
Ci scrive dapprima il 17 febbraio. «Dall’inizio della settimana ci sono attacchi aerei di giorno e di notte e bombardamenti di tutte le sorti di armi esistenti. Stamani all’alba hanno cominciato nella città di Daraa (distretto al-Balad, ndr), i vicini distretti di al-Nu’eima e Saida e sulla via di al-Sad: finora dieci raid. Hanno colpito gli ospedali di Daraa e Saida».
Mentre continua la conversazione via chat, aumentano anche i raid e le bombe. «Ora sono tredici». E tra una mia domanda sulla famiglia (hamdulilla, stanno bene ) e l’altra sui colleghi, (hon, ma’ee, sono qui con me, sempre pronti), mi aggiorna, mandandomi foto in diretta: « Ecco, sono diventati quindici… Ad ogni raid vengono sganciati due missili oppure tre e quattro missili insieme». Erano sole le nove del mattino di venerdì 17 febbraio.
«Siamo tutti sotto pressione perché hanno chiuso tanti ospedali a causa dei bombardamenti. Ed il resto sono pieni tra feriti e cittadini…»
Avevamo conosciuto Doctor Khalil, insieme ad una ventina di suoi colleghi, ad Amman, in Giordania. L’ospedale di Medici senza Frontiere, tramite il supporto del Dottor Bassam Abazed, ha organizzato nel corso del 2016 delle formazioni professionali di “War Surgery” per medici, chirurghi, infermieri ed altri operatori sanitari, alcuni dei quali non hanno potuto completare la specializzazione. Sebbene a maggio fosse un periodo di relativa calma dai bombardamenti, quantomeno nel governatorato di Daraa, continuamente arrivavano sui loro cellulari foto dagli ospedali, dai pazienti e dai nuovi feriti. Tramite un accordo tra governo giordano e ribelli della zone di confine, nel maggio 2016, 19 su 25 medici previsti per quella formazione erano riusciti ad entrare nel regno hashemita, la cui frontiera è ormai chiusa ai siriani, senza nemmeno accogliere le emergenze dal deserto di Rakban dopo l’attacco del giugno 2016.
Per il workshop in “War Surgery”, i chirurghi iracheni e giordani dell’ospedale di Amman studiavano casi di esplosioni, ferite, operazioni chirurgiche del vicino Iraq, mostrando le foto, spiegando le cause delle ferite, l’età dei pazienti, indicandone la provenienza. I medici siriani annuivano spesso, essendosi già trovati spesso di fronte alle stesse tipologie di atrocità.
Daraa è stata la città dei primi arresti e delle prime morti della rivoluzione.
I primi arrestati del 6 marzo 2011 erano una decina di adolescenti che non avevano neanche 15 anni, colpevoli di aver scritto sui muri della scuola gli slogan che sentivano dalle piazze tunisine ed egiziane. I primi morti, di Daraa e di questa ancora lunghissima guerra, erano 4 tra i migliaia di cittadini che si erano riuniti il 18 marzo di fronte la moschea di Omari nel distretto centrale di al-Balad per protestare proprio contro quell’arresto ingiusto.
Al funerale del giorno dopo, scrivono Leila al-Shami e Robin Yassin-Kassab nel loro imprescindibile Burning Country, le forze di sicurezza utilizzano « una tattica che diventerà routine »: occupano un ospedale nelle vicinanze e cominciano ad arrestare o sparare a ogni ferito che lì si recava. Ed è così che la moschea Omari si trasforma nel primo ospedale improvvisato della Siria all’inizio del 2011.
Anche questo, il primo di una lunga serie.
La stessa moschea, ricordano gli autori, costruita nel VI secolo dal califfo Omar bin al-Khattab, verrà colpita da un bombardamento nel 2013, l’anno più brutale di scontri tra forze governative ed Esercito libero, che ne distruggerà l’antico minareto.
Un mese dopo, il 25 aprile 2011, Daraa era ormai stretta da tutte le parti, con cecchini sui tetti ed edifici con persone intrappolate, quando arrivano i carri armati dell’esercito. E di nuovo, accanto al fuoco in risposta ai manifestanti, continua la precisa strategia di attaco all’intervento medico urgente: ambulanze con feriti, farmacie date al fuoco, l’impedimento all’arrivo di supporti medici . Questa è la stessa storia che i medici di Daraa ci raccontano ad Amman, moltiplicata per cinque anni. Ma nonostante questi attacchi indiscriminati durati 5 e ora 6 anni, i medici non vogliono restare in Giordania, vogliono tornare a casa.
«Questa è la nostra rivoluzione e l’unica cosa che possiamo fare per resistere è fare il nostro mestiere».
Così dicevano i medici Khalil, Mohammed ed Ala’a a maggio, e così ancora oggi si ritrovano a lavorare – e resistere – sotto le bombe. Questa volta anche russe.
Il regime durante ormai quasi 6 anni di guerra ha colpito e continua a colpire, rafforzato dai suoi alleati (così come altri gruppi armati tra le diverse parti in conflitto, anche se in misura decisamente minore) ospedali e strutture sanitarie di ogni genere: centri di nascita, cliniche, centri di supporto psicologico, centri per vaccini, ospedali improvvisati. Questo ci dice il report del gennaio 2017 del Syrian-American Medical Support (SAMS), che registra addirittura un aumento degli attachi proprio dopo la risoluzione 2286 del 3 maggio 2016 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, scritta per condannare gli attacchi a strutture e personale medico nel conflitto, ma che non ha impedito che il 2016 si classificasse come l’anno più pericoloso per gli operatori sanitari di tutta la guerra in Siria. Ecco una mappa di questa guerra nella guerra.
Il pacifico controattacco dell’opposizione al regime e di opposizione all’escalation dei gruppi armati estremisti che hanno fatto degenerare la rivoluzione, in nome della stessa, si arma tra le altre proprio di questa forma di resistenza: quella di tutti gli operatori della sanità, medici, infermieri, conducenti di ambulanze, staff ospedaliero in trasferta.
All’insufficienza o inutilità del diritto internazionale umanitario, allo stallo e al vuoto di senso dei vertici e negoziazioni per la fine del conflitto, scioccati dall’inazione e rassegnazione della comunità internazionale, Doctor Khalil e i suoi colleghi continuano ad operare. Un po’ per sopravvivere loro stessi, un po’ per sperare di salvare vite, utilizzano la loro competenza in opposizione al regime e al conflitto, non solo dunque in termini umanitari ma strettamente politici, elevando il loro lavoro, la loro azione, dal semplice intervento medico ad un significato altamente rivoluzionario.
Non a caso, insieme ai resistenti media liberi e ai consigli locali, presenti anche a Daraa in diversi distretti, health under fire è a giusto titolo considerata parte integrante dell’opposizione siriana non armata che resiste.
I raid sono attualmente in corso, non c’è una conclusione.
L’unica conclusione a questo articolo sono le parole dei medici stessi: Doctor Khalil, Mohammed e Khaled, in un video di interviste raccolte insieme al fotografo Alessio Mamo ad Amman, che ci riporta alla loro vita quotidiana e che al loro coraggio è dedicato.
video di Alessio Mamo e Marta Bellingreri