Betlemme, il muro costruito da Israele e la provocazione dell’artista
di Paola Caridi, tratto da Invisible Arabs
E così Banksy ha deciso di investire i suoi soldi in una delle città più strangolate del mondo, di quelle che non è per niente facile raggiungere, per i turisti di tutto il mondo. Banksy, però, è un artista che riesce sempre a stupire, e dunque l’apertura del suo Walled Off Hotel è riuscita a fare il giro del mondo.
Mai, infatti, notizia sul Muro di separazione a Betlemme costruito da Israele aveva suscitato così tanto clamore.
A dire il vero, neanche le notizie più crude, più violente, erano riuscite a superare la cortina di indifferenza su una barriera di cemento armato che nella sua stessa essenza architettonica è una vergogna. Uno scandalo di cui nessuno vuole parlare, nemmeno nei tempi di Trump e della vergogna del muro lungo il confine col Messico.
E’ un silenzio che dura da quando le prime lastre prefabbricate di cemento armato (alte fino a nove metri) sono arrivate al confine di Gerusalemme. Correva l’anno 2003, e il Muro di separazione ne ha fatta – ahimè – di strada. Ben 700 chilometri, tra cemento armato e reti di recinzione dal sud al nord della Cisgiordania, sin dentro Gerusalemme.
A Betlemme, chiude la città verso Gerusalemme e, di fianco, verso la colonia di Har Homa, ormai una cittadina da decine di migliaia di abitanti. L’imponente, pauroso Muro grigio entra sin dentro Betlemme, si prende la tomba di Rachele, proprio lì dove Banksy ha aperto il suo albergo. E si inerpica su Beit Jalla, alla periferia, corre sui campi attorno al paesino di Walaja.
Si sarebbe anche incorporato nel territorio controllato da Israele i terrazzamenti antichi e tradizionali palestinesi di Battir, per fortuna salvati dal loro inserimento nel patrimonio Unesco, come luogo a rischio. È un Muro incombente che ferisce la terra, la requisisce, la nasconde, e va sino ai confini con il territorio di Hebron. Betlemme, in questo modo, è chiusa come in un utero.
Negli oltre dieci anni di questo scempio, nessuno scalpore hanno suscitato le quotidiane notizie della dignità calpestata quando, dalle tre di notte in poi, una massa dolente di lavoratori palestinesi si mette in fila dentro corridoi chiusi da alte sbarre di metallo. Come pecore incanalate verso il terminal dove una carta di identità e un permesso di lavoro possono fare la differenza: passare significa andare a lavorare e dar da mangiare alla famiglia, essere costretti a tornare indietro significa perdere due volte la dignità.
Di questa quotidiana umiliazione, nulla o pochissimo si sa nel mondo. Non fa notizia. E poi d’un tratto, con l’albergo di Banksy, il dramma di Betlemme riempie i social, i quotidiani, youtube, le tv. Diventa di moda. Non ci era riuscito neanche Arab Idol, la versione araba di reality tipo il nostro XFactor: l’edizione 2016-17 l’ha vinta poche settimane fa un ragazzo di Betlemme, Yacoub Shahin, palestinese, cristiano, assiro.
Le telecamere della trasmissione – seguitissima in tutta la regione – hanno indugiato per secondi e per minuti sulla Chiesa della Natività, rendendo ai cristiani del Medio Oriente il più grande servizio, il più importante regalo in termini di comunicazione. Gli arabi cristiani sono arabi come la maggioranza musulmana, diventano icone pop, e la loro bravura unisce il gran popolo dei telespettatori oltre i settarismi.
Arab Idol, però, è questione interna al pubblico arabo. Non tocca gli occidentali, gli europei, gli italiani. Per smuovere le telecamere di casa nostra occorre altro. Occorre una nostra icona pop, capace di stupire e di rompere le regole non scritte del “questo si può dire in prime time”, “di quest’altro è meglio non parlare, perché altrimenti arrivano le solite email, rimostranze, telefonate irritate”.
Ci è voluto Banksy, insomma, per rompere il velo e riconquistare a Betlemme le prime pagine dei giornali e il prime time immaginario dei social. Da ieri, 11 marzo, il Walled Off Hotel accetta prenotazioni per la sua decina di camere con vista sul Muro. Una delle peggiori viste che ci si possano aspettare per una vacanza. L’ho potuta osservare tante di quelle volte, proprio lì attorno all’albergo di Banksy, quella vista. Quelle tante volte non hanno mai avuto il potere di farmi abituare allo scandalo del Muro. Semmai, ne ho compreso fin nelle viscere la vergogna morale.
È per questo che trovo l’operazione d Banksy una buona operazione. Non mi convincono le anime belle che temono la normalizzazione verso le autorità israeliane. Non mi convince il partito di chi dice: ecco, è una operazione commerciale ed elitaria che nasconde la sofferenza di Betlemme. Le polemiche, infatti, sono già iniziate. Il partito pro-Banksy e quello molto critico verso l’apertura dell’albergo hanno già cominciato a confrontarsi tra articoli e commenti sui social.
Dico la mia, dunque. Ben venga Banksy, che a Betlemme aveva già dedicato tenerezza e attenzione alcuni anni fa, con i graffiti sul Muro che hanno avuto il potere artistico-politico di mettere alla gogna la barriera di cemento. Quale sarebbe il pericolo del Walled Off Hotel? Di normalizzare cosa? L’albergo, invece, riesce a fare ciò che noi giornalisti non siamo riusciti a fare.
Espone, mostra, rende immediatamente comprensibile che cosa è il Muro. Noi non siamo riusciti a spiegarlo. Banksy fa un’operazione inversa: chiede alle persone di venirlo a vedere, addirittura chiede di pagare per venire a vedere lo scandalo. A cento anni dalla dichiarazione Balfour. A 50 anni dalla guerra del 1967.
Se si riempiranno aerei e pullman di turisti del Muro, sarò felice. L’orizzonte negato di Betlemme, l’orizzonte chiuso e claustrofobico di Betlemme va visto e vissuto. A me questo turismo non fa paura. Mi convince sempre di più che oggi è il tempo degli artisti, perché riescono a raccontarci la contemporaneità. Ci costringono a pensare, e finalmente a prendere posizione.