La focaccia, le sgagliozze, gli alimentari con i poster dei santi in bella mostra, i panni stesi al sole, le viuzze di pietra bianca, le chiese, i campanili, l’interactive data visualization, le app android per le smart cities, i visual studies, il metodo dialogico. È il nuovo, approssimativo, elenco di cose che oggi si possono trovare girando per il centro storico di Bari, da quando è nata la Scuola Open Source.
di Andrea Colasuonno
Si trova in Strada Lamberti 16, alle spalle della Cattedrale di San Sabino, è lì da luglio scorso e in questo articolo spiegheremo di cosa si tratta. Che non è proprio fra le cose più semplici del mondo. Andando sul sito si legge “siamo una comunità: artigiani digitali, maker, artisti, designer, programmatori, pirati, progettisti, sognatori e innovatori. Agiamo assieme, sperimentando nuovi modelli e pratiche di ricerca, didattica, mentoring e co-living”. Ma a noi non è bastato. Per entrare più nello specifico abbiamo chiesto di parlarcene ad Alessandro Tartaglia, professione digital strategist e designer, ma soprattutto direttore didattico e cofondatore della scuola in questione. Ha gentilmente accettato.
Innanzitutto: cos’è la Scuola Open Source?
La scuola Open Source è senza dubbio un esperimento in ambito educativo e pedagogico, nonché un tentativo di costruire una pratica d’innovazione sociale e culturale dal basso. L’abbiamo definita “open source” perché lavora su tematiche come quelle dell’innovazione tecnologica e sociale, con un approccio aperto e condiviso della “sorgente”, cioè della conoscenza che nella scuola si produce. E poi perché non è niente di definitivo, è oggetto di revisione continua, come avviene in informatica, in modo che possa essere continuamente migliorata.
Abbiamo potuto realizzarla grazie a un bando vinto di cheFare. Volevamo realizzare una scuola, non sapevamo bene come perché non l’avevamo mai fatta, così una volta avuti i fondi la prima cosa è stata organizzare un grande laboratorio per co-progettarla. Abbiamo invitato 24 docenti da tutta Italia di varie discipline, abbiamo selezionato 66 partecipanti e insieme, per 12 giorni, abbiamo progettato quella che poi sarebbe diventata la Scuola Open Source. Il lavoro si è concentrato su tre assi: la comunicazione, cioè come la scuola si racconta e si rappresenta; i processi, cioè come funziona effettivamente, su quali dinamiche si regge; gli strumenti, cioè cosa serve alla scuola di materiale o immateriale per funzionare.
Cosa la distingue da altre scuole?
Sicuramente il fatto che non ci siano programmi monolitici predeterminati. Abbiamo percorsi che non sono lineari da A a B e poi da B a C, ma composti da piccoli moduli che cambiano continuamente, così che chi frequenta i corsi possa acquisire le competenze che vuole spaziando in ambiti diversi, seguendo solo i suoi interessi. Un’altra differenza rispetto alle scuole tradizionali è che in quella open source, i progetti didattici, sono espressioni di progetti di ricerca in atto, ricerca e didattica dunque si sviluppano di pari passo. La programmazione viene cambiata ogni 3 mesi e a ogni ciclo ci sono cose diverse. Inoltre l’offerta viene pianificata assieme all’utenza, non siamo noi che proponiamo unilateralmente gli argomenti. C’è un form sul sito che deve compilare chi vuole proporre i corsi per insegnare lui stesso o perché ritiene che quella conoscenza gli serva. Ogni due mesi poi noi filtriamo quello che ci è arrivato e sulla base di questo, unito a quanto ci arriva dagli ambiti di ricerca, definiamo un palinsesto di attività.
L’idea di una scuola simile in quale contesto ha fermentato?
Bisognerebbe partire dalla storia di questo posto in cui siamo adesso che si chiama FF3300. FF nacque come una rivista che si occupava di contaminazione fra ambiti di progettazione differenti. Dopodiché il tutto diventò uno studio di progettazione ed io e Carlotta (Latessa, ndr) iniziammo ad insegnare al Politecnico di Bari. Questa esperienza ci fece maturare l’idea di voler lavorare in ambito didattico, ma in modo diverso e più sperimentale rispetto a quanto avevamo fatto fin lì. La prima opportunità ci fu offerta da un bando della Regione Puglia, “Laboratori dal basso”, che vincemmo e che ci permise di tenere un corso che chiamammo “X”, a Castrignano de’Greci, in un Castello, per 15 giorni. Mettemmo insieme 18 docenti e 36 partecipanti. L’anno dopo abbiamo partecipato ancora allo stesso bando con nuovi amici che si erano uniti al progetto dopo esser stati a Castrignano. Quell’anno i laboratori furono 2, uno sempre in ambito design come l’anno prima, l’altro in ambito video e making. Parteciparono il doppio dei docenti e il doppio dei corsisti. A quel punto abbiamo capito che la cosa poteva funzionare, così abbiamo partecipato al bando di cheFare che poi abbiamo vinto. Con la metà dei soldi vinti abbiamo organizzato il laboratorio del luglio scorso di cui ti dicevo prima.
Esistono altre scuole simili in Italia o in Europa?
Esistono molti luoghi che fanno formazione in ambito tecnologico o sociale o legato al design. Ci sono invece pochi luoghi, se non pochissimi, che fanno tutto questo insieme, garantendo un livello di formazione alto, soprattutto dal punto di vista metodologico. Per capirci, il nostro punto di riferimento in termini d’immaginario, rimane la Bauhaus, la scuola nata a inizio ‘900 in Germania che mise insieme architettura, belle arti e un istituto tecnico, dunque progettazione, arte e competenza manuale. La nostra idea è proprio quella di tenere uniti questi mondi. Quindi, per tornare a noi, magari, anzi sicuramente, ci sono già ottime scuole di design, come ottime scuole di making, ma scuole che riescano a farli coabitare non lo so, non credo. È una scuola che ci stiamo inventando man mano, speriamo di fare sempre meglio.
Il fatto che la Scuola Open Source sia nata ed operi al Sud ha un significato particolare?
Sicuramente il Sud ha prodotto questa scuola in qualche modo, se pensiamo al Sud come a uno stato mentale. Tuttavia la sua azione non si limita al Sud, attira e si avvale di gente venuta da ogni dove. Certamente ci sono delle caratteristiche molto meridionali a cui badiamo a margine delle nostre attività: la convivialità, l’empatia, l’accoglienza. Il fatto che sia nata proprio qui poi è sicuramente da collegare al fatto che in Puglia, negli ultimi 10 anni, sono successe cose che hanno innescato dei processi. Questi processi, direttamente o indirettamente, hanno portato delle persone ad incontrarsi e a discutere intorno a un tavolo d’idee sulle quali poi hanno deciso d’investire del tempo.
La Scuola Open Source oggi è finita e deve solo funzionare o il suo stato attuale è una tappa di un disegno più generale?
Al momento la Scuola Open Source è al 10 per cento di quello che dovrebbe diventare. Stiamo lavorando perché il tutto si realizzi. L’affluenza ai corsi sta aumentando e questo dipende anche dal fatto che noi capiamo via via come tararli. Manca ancora uno sviluppo sostanziale della parte legata alla ricerca e al co-living dello spazio. Stiamo discutendo con diverse imprese proprio in questo periodo e spero per l’estate possano essere implementati questi ambiti. Ovviamente il disegno generale di cui mi parlavi resta quello di essere da leva perché evolva tutto il contesto territoriale nel quale siamo, ma su questo non possiamo assicurare niente.
Per quanto riguarda i corsi attivi adesso?
Si stanno per chiudere quelli della sessione di dicembre-gennaio, design della comunicazione e protipizzazione elettronica. Dopodiché ce n’è altri 12 in programmazione. Vanno da costruire un synth audio-video e imparare ad usarlo, disegnare caratteri tipografici, apprendere la metodologia base del design, i visual studies, due corsi di programmazione , un corso di filosofia per bambini, uno di tecniche di apprendimento e cooperazione, uno di visualizzazione di dati e così via. Qualunque cosa, ad ogni modo, si trova sul nostro sito.