Non lo si direbbe, ma la scuola è il luogo ideale per investigare gli orientamenti e le dinamiche in atto della politica.
di Alessandro Macchia
Tutto ciò, presa consapevolezza che l’opinione secondo cui l’establishment avrebbe un disinteresse congenito nei confronti della scuola è assolutamente inesatto. La verità è che, verso il mondo della scuola, le classi dirigenti di interesse ne manifestano anche troppo. Del resto, solo secondo un’analisi sommaria si potrebbe tacciare d’incompetenza chi ha concepito la Buona Scuola.
A guardar bene, si palesa, anziché un’accozzaglia di idee, un piano lucidissimo di delegittimazione del settore, fatta bersaglio la didattica non meno che quegli elementi di sistema che erano perfettamente rodati e funzionanti: vedi su tutti la mobilità.
Un altro luogo comune da confutare risiede nel convincimento che l’impostazione data alla scuola dallo stesso governo Renzi sia di destra perché emulativa del modello aziendale. Niente di più falso. La scuola italiana d’oggi, dopo le riforme degli ultimi venti anni è proprio di sinistra, ma di quella sinistra che evidentemente ha ancora nel DNA il modello organizzativo del dirigismo sovietico. Del resto, lo smantellamento della scuola pubblica italiana nei suoi meriti è stata avviata proprio da un governo di centrosinistra (il governo Prodi) e da un Berlinguer: il Luigi, ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000. Si constata quanto sopra, ancor prima che nell’analisi dell’apparato organizzativo della scuola, nel lessico che descrive quell’apparato stesso. Prendiamo la seguente espressione: “funzione strumentale”.
Essa, mentre svela una classe docente prona, in maniera colpevole e umiliante di sé, al burocratese della politica, rivela il depauperamento stesso del lessico e della consapevolezza semantica di quella lingua che quei medesimi professori hanno il dovere di trasmettere alle nuove generazioni. Infatti, l’espressione “funzione strumentale” non è altro se non un’esplicita e brutta ridondanza, considerato che il termine di “funzione” implica già di per sé il significato di strumentalità. A meno che non si voglia vedere nella ridondanza un ricercato effetto retorico per sottolineare il valore sempre più marcato dell’abito impiegatizio degli insegnanti. L’espressione cancella in un colpo solo il leopardiano “lettore d’umanità”. Per mettere a nudo la reale posizione dei docenti di fronte a questo tipo di sistema, è sufficiente prendere in considerazione la corsa alla “funzione strumentale” che s’innesca a ogni inizio d’anno scolastico. Il professore che riveste cotanto ruolo (generalmente pilotato dai dirigenti, spesso per simpatia o amicizia personale) è investito delle sorti magnifiche e regressive dell’istituto, sebbene poi spesso eserciti alcune di quelle sue cariche (sveliamoli, suvvia, gli arcani del mestiere!) nelle ore di lezione. Ma, a motivare l’insegnante, è soprattutto l’incentivo stipendiale, e, dall’anno passato, il sicuro accredito del famigerato bonus per i più meritevoli.
È il modello Stachanov: più lavori e più guadagni, con l’aggravante che i dirigenti prescindono dalla qualità del lavoro, ovvero dal come lo fai.
Il docente medio in Italia si lamenta delle riforme ministeriali, ma poi, nella sostanza, per il piatto di lenticchie, asseconda le stesse e le fa attecchire. Il problema delle funzioni strumentali potrà sembrare surrettizio: si obietterà che qualcuno dovrà pur occuparsi dei viaggi d’istruzione, di BES, DSA, PDP e… ahi! ché il moltiplicarsi delle sigle nemmanco nella Russia degli anni Trenta! L’obiezione ha una qualche consistenza, ma il problema è che il baricentro della professione è troppo spostato verso la valorizzazione esclusiva di queste funzioni e, di conseguenza, l’insegnante è sempre più proteso verso la categoria del funzionario. Un “funzionario strumentale”, per l’appunto. La dimostrazione pratica è tutta nel bonus di cui sopra, che ha gratificato solo i funzionari, dimentico degli Insegnanti, quelli con la maiuscola.
Ed eccoci alfine allo svelamento della realtà di una scuola formata da funzionari secondo la più bell’acqua del vecchio modello sinistrorso, in linea col quale si era già realizzata la trasformazione del vecchio “preside” nel nuovo “dirigente”. A quel punto, chiamiamolo pure “dirigente d’azienda”, ma i rapporti di potere all’interno della scuola si stabilizzano secondo forme di esecutivismo sovietico.
Da qualche parte, senza scherzi, s’intravede in controluce finanche qualche germe di politburo. Di pari passo v’è il moltiplicarsi delle forme di aggregazione: dai vecchi, e bastevoli, collegi dei docenti e consigli di classe si è progressivamente passati alle assemblee di dipartimento (prima si sarebbe detto “di materia”, ma “dipartimento” fa più figo e più accademia!), ai nuclei di continuità, alle assemblee per classi parallele, ai comitati di valutazione, eccetera. Alcuni le chiamano “occasioni per socializzare un’idea o un progetto ai colleghi”.
E di nuovo inciampiamo nella grammatica, preso atto che “socializzare” non è sinonimo di “condividere” un messaggio, ma designa lo sviluppo di rapporti interpersonali o, altrimenti, nel vocabolario economico, l’azione di rendere sociali o statali i mezzi di produzione.
Ancora un accidentale misunderstanding? Forse sì, ma di nuovo un segnale della trasformazione della cultura, ovvero della scuola, in chiave mercantile. Ora, lo scopo alla base di questa crescita infelice delle modalità di aggregazione dovrebbe essere il miglioramento del sistema. E al contrario, diciamo noi, il sistema dovrebbe essere soppresso perché nella sua demagogia (o nelle reliquie d’essa!) la sinistra vede nell’insegnante un lavoratore tout court, un operaio (con il nostro sincero rispetto per gli operai!) o un tecnico (con altrettanto nostro riguardo per i tecnici!). Un sistema che dovrebbe essere eliminato se non altro perché è tutto un blablare infruttuoso e sempre condizionato dal profluvio delle circolari ministeriali che obbedienti dirigenti si premurano di coltivare e impartire a obbedienti sottoposti. Invero, per parafrasare Samuel Johnson, le assemblee, le riunioni tutte, sono per la maggior parte l’ultimo rifugio degli imbecilli: la soddisfazione estrema, o forse postuma! di chi non trova il senso della bellezza nella trasmissione pura e semplice del sapere, nel contatto con quell’umanità in erba che sono i ragazzi. Perché, alla fin fine, chi sono questi nostri scolari? Nient’altro se non cuccioli d’uomo. Ebbene sì! Che lo crediate o no, a dieci, undici anni si è cuccioli d’uomo.
E questi cuccioli d’uomo andrebbero accuditi nel loro processo di educazione e crescita unicamente da persone competenti.
Ma bisogna riconoscere che per troppo tempo la scuola è stata un ammortizzatore sociale, capace di accogliere al suo interno figuri che in tempi più seri ne sarebbero stati esclusi con uno sberleffo. È proprio da qui che comincia la delegittimazione della figura dell’insegnante. L’insegnante ha perso la sua autorevolezza nei confronti della famiglia e della società nel suo complesso perché adesso val bene un colletto bianco. Del resto, facciamocene una ragione: l’insegnamento, come lo conoscevamo, è un mestiere in via di estinzione. Oramai la scuola è sempre più tesa a essere composta da dirigenti e dirigibili.