La replica di due ricercatori, una donna e un uomo, una musulmana e un ateo, all’articolo di Giuliana Sgrena a favore della controversa decisione della Corte Europea secondo la quale è possibile vietare che una donna indossi il velo sul posto di lavoro
Di Rosanna Sirignano e Nicola Di Mauro
Il seguente articolo è frutto di un dialogo tra due giovani ricercatori, tra una donna ed un uomo, tra una musulmana e un ateo; è un tentativo di riflessione di due persone di sinistra, da sempre impegnate in politica con lo scopo di contribuire alla costruzione di una società più equa e libera. L’articolo di Giuliana Sgrena “Il velo è strumento di controllo” apparso sul Manifesto il 17 marzo, ci ha dato lo stimolo per partecipare al dibattito pubblico, cercando di sottolineare la pericolosità di affermazioni di un certo tipo. Tenteremo di spiegarne le ragioni, con la consapevolezza di non essere esaustivi.
Nell’intervento della Sgrena innanzitutto non si tiene conto della complessità e dell’eterogeneità di cui è composta la comunità islamica europea, come d’altronde lo sono tutti i tipi di gruppi umani. Sembra banale, eppure ci sembra opportuno ribadire, che le ragioni e le circostanze in cui le donne musulmane si ritrovano ad indossare il velo sono molteplici e diversificate.
Gli innumerevoli fattori implicati necessiterebbero, infatti, di un’analisi lunga ed approfondita, come avviene negli ambiti accademici di cui facciamo parte. L’immagine univoca che emerge dall’articolo ci sembra pericolosa, perché contribuisce e alimenta quella narrazione tossica sui musulmani e in generale sulle minoranze, nata negli ambienti conservatori, che diventa egemonica sconfinando i perimetri politici classici.
Ridurre l’identità della donna musulmana all’uso del velo, presentato solo come imposizione maschile, ci sembra una scelta tutt’altro che neutra, ma più che altro volta a trasmettere un preciso modello di emancipazione femminile basato, a nostro avviso, su concezioni eurocentriche dal tono paternalista. Di conseguenza si esclude la possibilità di altri modelli e si tiene poco conto della realtà e della sensibilità delle donne a cui si augura l’emancipazione. Ad esempio, il riferimento ai presunti capi delle comunità islamiche, che “vorrebbero mantenere le donne isolate e quindi sotto controllo”, non tiene affatto conto della donna come soggetto attivo, che in molti casi può decidere liberamente di adeguarsi ad un tipo di abbigliamento, conforme al suo modo di vivere il rapporto con l’altro sesso, con il corpo e infine con Dio. Ignorare la possibilità che molte donne musulmane consapevolmente fanno della religione un pilastro della loro vita è inaccettabile.
Naturalmente siamo consapevoli che il velo, insieme ad altri aspetti della religione islamica, viene in alcuni casi usato come strumento di controllo delle donne e ci auguriamo che il dibattito, anche interno alla comunità islamica, si apra su temi più rilevanti come, ad esempio, il complesso rapporto tra gli ordinamenti europei e il diritto di famiglia islamico in una prospettiva di reale godimento dei diritti delle donne.
Ci sembra inoltre pericoloso che, in qualche modo, il significato profondo che il velo ha per molte donne venga svilito.
Il riferimento alle ragazze che decidono di indossare il velo per emanciparsi dalle madri cosiddette “moderate che non lo indossano”, descrive il velarsi come una semplice reazione. Dunque, nuovamente, le donne musulmane velate sono soggetti passivi, non capaci di agire liberamente, di scegliere in maniera autonoma e indipendente. Le categorie contrapposte “moderato – radicale” ci sembrano inoltre inadeguate, perché si rischia di confondere i piani del politico e del religioso. La questione dell’obbligo del velo nel Corano è di una tale complessità e presuppone una profonda conoscenza dell’arabo, delle scienze islamiche e della storia che ci sembra quantomeno azzardato liquidarla in una frase frettolosa. Ma anche se il velo non fosse prescritto dalla religione, ma elemento culturale, quale sarebbe il problema ad indossarlo?
Affermare che il velo sia “la manifestazione dell’appartenenza ad un islam radicale, una versione fondamentalista della religione” oltre ad essere falso diventa pericoloso in quanto alimenta pregiudizi, diffidenza e discriminazione nei confronti delle donne velate. In questo quadro rientra la valutazione della decisione della Corte Europea che, se per la Sgrena è un modo per combattere l’estremismo islamico, a noi sembra un modo per alimentarlo. Sentendosi attaccate e private del diritto di avere eguale accesso al mondo del lavoro, le “velate” potrebbero percepire con maggior forza la contrapposizione ingiustificata Islam-Europa, molto usata proprio da diversi gruppi estremisti (islamici e non) per alimentare le ostilità e l’incomprensione.
La decisione della Corte Europea espone le donne velate a gravi discriminazioni ponendole in una posizione di fragilità : il velo diventa così una sorta di handicap.
A questo proposito ci chiediamo: quale sarebbero i problemi che una donna con il velo creerebbe nel posto di lavoro? Forse i clienti potrebbero diffidare di lei? Ma questo è causato dal velo o dai significati che osservatori miopi e arroganti gli attribuiscono? La decisione della Corte Europea, dunque, rischia di legittimare problemi legati ad una doppia discriminazione subita dalle donne velate: rispetto agli uomini e rispetto alle donne non velate, per non parlare della condizione di minoranza religiosa e soprattutto delle condizioni socio-economiche di molte donne musulmane, che nella maggior parte dei casi hanno vissuto l’esperienza migratoria o ne sono figlie.
La nostra idea di libertà è molto chiara: la conoscenza, la coscienza e la consapevolezza dei propri bisogni e dei propri desideri è la premessa a percorsi di liberazione. Ebbene ci sono tante donne che desiderano mostrare solo una parte del proprio corpo, e sì, ad alcuni suonerà strano, molte donne scelgono di coprirsi la testa per essere simbolo, esse stesse, di una comunità religiosa, per dichiarare la propria adesione all’Islam (senza aggettivi). Un Islam che, come le altre religioni monoteiste, si è sviluppato in contesti patriarcali ma che può essere reinterpretato, ribaltato e vissuto in un contesto diverso.
Ecco che il velo può diventare per molte anche e addirittura strumento di emancipazione, un modo diverso di vivere la sessualità e di avere a che fare con il proprio corpo, quel corpo strattonato da una parte e dall’altra, da chi vuole possederlo o da chi vuole liberarlo senza chiedere mai il permesso.
Semmai una donna dovesse sentirsi in qualche modo oppressa da qualsiasi cosa, velo compreso, io donna musulmana e io uomo ateo diciamo che dovrebbe cercare dentro di sé i motivi profondi del suo disagio, e una volta scoperti essere libera di decidere, senza sentirsi giudicata se non dalla propria coscienza.
Il movimento “Non una di meno”, per esempio, ha dato dimostrazione che è possibile tenere insieme le diverse spinte alla liberazione delle donne; se lavorassimo tutti nella stessa direzione, accettando che esistono molti modi in cui si declina la lotta all’emancipazione femminile, forse saremo capaci di costruire una società più equa e libera.