Il diario di una spedizione fino al confine tra Serbia e Ungheria
di Barbara Capone
Reti. Un filo spinato affilatissimo che brilla tetro sotto un sole coperto di nuvole. Una spianata, pulita, spaziosa, vuota.
Dei pali, ogni 5 metri, tre telecamere per palo. Perché nulla possa sfuggire. Un bosco vicino, ma sullo spiazzo – a perdita d’occhio – non un filo d’ombra, né ora né a venire.
È una fredda mattinata di marzo. Pochi i container già assemblati, lo stemma della Croce rossa ungherese svetta. Come alta si staglia una torre, bianca e rossa, nel centro del campo.
Accoglienza, così la chiamano. Centinaia, migliaia di uomini e donne, detto addio al passato, a chi siano, alla loro storia.
Preso quel poco che li possa accompagnare, un telefono cellulare, unica forma di salvezza in un viaggio che vedrà spegnersi vite, storie, sogni, un viaggio attraverso un deserto, attraverso in campi di detenzione, violenze e stupri, barconi, mare.
Un corpo ustionato dalla benzina di un motore a scoppio, un fuoco e la scelta: un mare nero o resistere. Occhi persi per il calcio di un fucile. Nuova morte.
E di quelle centinaia, le fortunate che arriveranno faranno un passo su una terra che molti non avevano mai incontrato, né in libri né in racconti. È aliena, ma è terra, e soprattutto è lontana. Alle spalle morte certa. Davanti l’incognito.
E nello sbarco perderanno il nome. E si incammineranno. Verso nord. Verso la Germania. Verso l’Inghilterra. Calpestando suoli che non sapevano neanche esistessero, accompagnati da una lingua dolce-amara ma sconosciuta. Documenti non li hanno. E se li hanno è quasi meglio non li mostrino.
“E un giorno mi trovai in Ungheria. Io che vengo dalla Sierra Leone, arrivai in Europa. E pensavo tutti parlassero inglese. Pensavo l’Europa fosse una sola nazione. In realtà in fondo non era importante. Era un posto lontano. Era un posto lontano da guerra e morte certa. Un posto per ricominciare”
“Mi trovai qui, nel campo di Biscke, i giorni passavano senza sosta, senza che nulla accadesse. Ogni giorno uguale al precedente. Il tempo immobile, la frustrazione densa nell’aria si fa violenza e rappresaglie.”
E così che James Peter inizia un progetto di formazione per migranti, un corso di informatica per i molti che non avevano mai acceso un computer, prima una formazione di base, poi un laboratorio e web designing, poi le lingue, poi i corsi certificati.
E fonda una organizzazione MigHelp, e inizia a creare un ponte verso la società. Una forma di inserimento. E coinvolge le industrie, il privato, le scuole, le accademie; e vede i sorrisi dei primi assunti che decidono di dedicare ogni sforzo ogni istante libero per i nuovi che arrivano. Un faro di luce.
E poi Andrea, e il Baobab, e la nostra di accoglienza. Fatta di uomini e donne, che si fanno scudo e barriera quando le istituzioni chiudono gli occhi e gridando sgomberano. E le battaglie, e la resistenza. E l’appello alla disobbedienza civile.
Perché siamo Uomini tra Uomini. E non possono esistere barriere, non possono esistere confini. E se esistono stupri, deserti e mari, noi saremo supporto, saremo medici, saremo psicologi, saremo legali.
Saremo una pista di pattinaggio su ghiaccio per chi non ha mai nemmeno visto la neve, una partita di calcio, un corso di lingua, un abbraccio, un sorriso. Saremo Umani.
Budapest, Ungheria. Questo il tempo di Orban e della caccia al migrante, delle reti e delle frontiere, dei pattugliamenti e delle barriere.
Siamo ad un meeting della Gates Foundation, tema: migrazione. Accademici, fellows della fondazione, rappresentanti di NGO, riuniti per discutere dell’argomento.
Quali siano gli attori, quali le violazioni in atto, come si stia muovendo la società civile, cosa stia avvenendo in realtà. Siamo qui tra chi nel tema migrazione è direttamente coinvolto come Andrea o James, e chi – come noi – lo è in maniera più indiretta, lavorando in quelle terre da cui il flusso origina.
È di pochi giorni fa: “Hungary Approves Detention of Asylum Seekers in Guarded Camps”. Chiediamo informazioni, ma nessuno dei presenti ha visto, nessuno sa cosa stia realmente avvenendo.
Una macchina che ormai ha fatto il giro del mondo, decidiamo di andare nella zona in questione, tra Serbia e Ungheria, per cercare qualche informazione in più. Andrea vuole vedere, vuole capire.
Partiamo. Cerchiamo di raccogliere dati ma nulla. Non si riesce a sapere nulla. Alcuni sanno che i campi al confine con la Serbia sono stati smantellati.
I migranti spostati, non si sa dove. Non si sa in quale nazione. Non si sa come. Altre voci parlano di nuovi campi costruiti al confine.
Non riusciamo a sapere altro. Decidiamo di partire e di andare in direzione Serbia. E chiederemo.
Uno dei possibili campi dovrebbe essere a Röszke, arriviamo al confine e vediamo una fila lunghissima di macchine. Decidiamo di non attraversare la frontiera, invertiamo la marcia prima di restare intrappolati in una attesa che sembra infinita.
“Fermi, fermi, fermiamoci qui, credo di aver visto qualcosa” e Andrea indica un punto non troppo lontano. Ci avviciniamo e vediamo un filo spinato taglientissimo sovrastare un recinto alto 4 o forse 5 metri.
Pochi container montati, stemmi della Croce rossa ungherese. Tanti tanti secchi della spazzatura, pali, fari e telecamere, ovunque.
Una torre rossa e bianca sovrasta il campo, container ancora da assemblare affastellati in un angolo. Siamo davanti ad una spianata arida, senza un filo di ombra.
Mancano le parole davanti a questo spettacolo. Sono i campi di cui ci avevano parlato, i campi di Orban. Solo Andrea riesce a dire qualcosa: “eh.. ormai ho un certo occhio.. ormai non me ne perdo uno… ”
Andrea ha fatto la rotta dei Balcani. Idomeni. Calais. Gestisce e coordina l’accoglienza a Roma e, poche ore prima, aveva fatto appello a quella disubbidienza civile che in un momento di buio istituzionale come quello che stiamo attraversando, ci rivesta di umanità.
Scattiamo qualche foto, ci rimettiamo in macchina e ci domandiamo dove siano state portate le persone che fino a poche settimane prima popolavano quei campi.
È ancora mattina, non abbiamo informazioni di sorta, ma decidiamo di continuare ad esplorare il confine tra Serbia e Ungheria.
Lungo la strada avevamo incontrato una stazione di servizio; torniamo indietro, scendiamo, prendiamo un caffè e ci apprestiamo a chiedere se localmente sappiano qualcosa.
Sulla parete esterna del bar, si staglia un cartellone che pubblicizza un caffé equo e solidale. Sorridiamo di un sorriso amaro ed entriamo.
“Salve, un caffé. Anzi tre grazie. Sa per caso dove si trovino i nuovi campi di accoglienza che si stanno costruendo? Dovrebbero essere qui, sa per caso se siano da queste parti”.
“Non parlo inglese.” “Francese?” “No. Ungherese.” Niente. “Migranti? Rifugiati?” Un cenno del capo per dire che non capisce cosa stiamo chiedendo “Internet, wi-fi?” Vediamo un hot spot libero.
Ci colleghiamo ed iniziamo a cercare. Scambiamo qualche messaggio a migliaia di chilometri di distanza chiedendo un aiuto nella ricerca. Occhi fissi su di noi ed il collegamento svanisce. Non parlano, non sanno. Nulla esiste.
Avevamo fatto in tempo a raccogliere qualche informazione, ci rimettiamo in marcia e prendiamo l’autostrada decidendo di non entrare in Serbia attraverso il confine di Röszke e sperando in un attraversamento più semplice.
Direzione Kelebija, il confine è ad una cinquantina di chilometri e non sappiamo neanche cosa e se troveremo.
Una stazione di servizio vestita da ristorante da pranzo nuziale, ancora un caffe, ripartiamo ed ecco finalmente il confine. Cerchiamo di chiedere informazioni ma ancora nulla.
Questa volta il WI-FI ci assiste e le poche informazioni che troviamo sembrano assodare che la direzione sia giusta. Ripartiamo ed attraversiamo il confine, verso i “kompagni Serbi” come dice Andrea.
Guccini nelle orecchie, passiamo una frontiera e poi l’altra e siamo a Subotica, immersi in un parco macchine d’altri tempi, con case vecchie e nuove che si mescolano, un quadro di un mondo che porta forti i segni della sua storia.
Attraversiamo tutta la città, sorridiamo vedendo i tanti immobili in vendita ed immaginando di comprarli e convertirli nelle realtà commerciali più assurde ci vengano in mente.
Continuiamo a vagare senza meta, ci fermiamo in un distributore a fare benzina, chiediamo e nulla, ancora nulla. Siamo ad un soffio dal confine ma nessuno sa.
Avevamo trovato il nome di una località abbinata a scontri in un campo al confine in un articolo datato novembre 2016, carichiamo quel posto sul navigatore e ci avviamo, e ci perdiamo in viali sterrati e sconnessi, nel mezzo di campagne sempre piu rurali.
Rallentiamo interdetti. E vediamo da lontano un signore, che cammina. Ci avviciniamo a lui, chiediamo. Non parla una parola di inglese, parla serbo. Ma sa.
Diciamo Migranti, campi. E lui, le mani da contadino che di storia ne hanno toccata tanta, ci dice si. Campi. E indica.
Ci dice di tornare indietro, spiega la strada, ci parla in serbo. Ma capiamo. Indica con insistenza, indietro e a sinistra.
Dovete andare indietro e a sinistra e poi dritto fino al confine. Sempre dritto.
È la prima persona che sappia. È la prima persona che ci indichi la via, un uomo che – per età – questa storia l’ha già vissuta.
Altri uomini. Altri trascorsi, altre origini, altre ragioni. Stessa violenza, stessa emarginazione, stessa omertà.
Ci rimettiamo in marcia e ripassiamo davanti alla stessa stazione di servizio dove avevamo chiesto informazioni ed incontrato sguardi stupiti, e sono pochi i chilometri ed iniziamo a vedere: un confine, ed a cavallo tra due frontiere un’altra distesa, più grande questa volta.
La stessa rete, lo stesso filo spinato di Röszce, ma molti più containers montati. Senza finestre, affastellati. Una gru si muove e lavora.
Parcheggiamo la macchina e scendiamo, facciamo due passi verso il campo e subito siamo avvicinati da un poliziotto di confine. Ci dice che dobbiamo mostrare i documenti al collega, che non possiamo stazionare.
Diciamo che vogliamo solo guardare, che siamo ricercatori e vogliamo vedere cosa stia accadendo. Chiede se abbiamo dei documenti che attestino che lavoriamo per associazioni umanitarie, perché solo cooperanti autorizzati dallo stato serbo possono avvicinarsi ai campi.
Abbiamo un tesserino universitario ma non basta. Ci accompagna dal collega che prende e guarda i nostri documenti uno ad uno, lentamente. Noi ed i passaporti. Ed ancora noi. Ce li ridà. E una collega ci avvicina e dice che non possiamo lasciare la macchina al confine. Dobbiamo spostarla.
Al confine non ci si ferma. Il confine si attraversa. Saliamo in macchina, e lo stesso poliziotto che aveva già letto pagina a pagina i nostri documenti li prende ancora. E li riesamina accuratamente. Uno ad uno. Ce li ridanno e ci dicono che dobbiamo transitare rapidamente.
Riusciamo a scattare qualche foto nel passaggio, ma non riusciamo a fermarci. Vediamo i lavori ed una seconda palizzata che affiancherà le reti, di legno e metallo, alta, e coperta anch’essa di filo spinato.
Arriviamo al confine ungherese, e nuovamente ogni documento è analizzato. La macchina perquisita. I documenti nostri, del veicolo, scannerizzati.
“Cosa siete venuti a fare in Serbia?”
Ed Andrea “a comprare le sigarette! costano solo due euro a pacchetto! ne ho comprati 5 pacchi, fantastico!” Silenzio.. “portate alcool?” una bottiglia di acqua in una macchina da battaglia viene adocchiata. Aprite il portabagagli!
Ed io sorrido pensando che il trasloco imminente fa sì che io abbia sei valigie, tutte vuote, nel bagagliaio della macchina e mi domando come spiegherò la cosa.
“Apra le borse”.
E dentro la borsa un’altra borsa, e a me viene da ridere. Il poliziotto di frontiera va via. Con i nostri documenti. Ce li ridaranno una decina di minuti dopo, chiedendoci di allontanarci.
E così facciamo, lasciandoci alle spalle una gru in movimento, dei containers senza finestre, ed una sensazione di svilimento e rabbia senza pari.