Le elezioni presidenziali mostrano una vittoria di ampio raggio per il premier Vučić ma gettano una luce preoccupante sullo stato della democrazia in Serbia
di Francesca Rolandi
“Non vogliamo una dittatura!”, “Vučić ladro, hai truccato le elezioni!”, “Vogliamo il secondo turno”. A tre giorni dalla vittoria trionfale di Aleksandar Vučić, le strade delle città della Serbia sono ancora piene di dimostranti.
Ad essere contestati sono i risultati delle elezioni che hanno portato il leader del partito progressista (un partito conservatore nato da una svolta moderata degli ultranazionalisti radicali), Aleksandar Vučić, già primo ministro, ad accaparrarsi al primo turno le elezioni presidenziali con una percentuale di oltre il 55%.
A fronte di un’alta astensione, i manifestanti in piazza e i molti delusi a casa, sono coscienti che la maggior parte della Serbia si è espressa a favore del candidato vincente.
Quello che esprimono con le loro proteste è la loro disaffezione verso una scena politica monopolizzata dall’uomo forte Vučić e dal deterioramento dello scenario politico.
Gli studenti avanzano richieste generiche che vanno da un cambio di governo alla liberazione dei media dal controllo partitico alla cessazione delle misure di austerità.
I manifestanti non si rifanno a nessuna appartenenza partitica, anche se molti di loro hanno votato per il candidato arrivato secondo, Saša Janković, il difensore civico che, come candidato indipendente, è riuscito a risvegliare l’entusiasmo politico di molti sostenitori. Janković ha ottenuto il 14,89% dei voti, con una forte maggioranza nelle aree urbane.
Le manifestazioni strizzano l’occhio alla piazza che negli anni ’90 tenne testa a Slobodan Milošević, in particolare alle proteste del 1997, di cui ricorre il ventennale. Un periodo che però la maggior parte dei manifestanti non ha mai, per motivi anagrafici, conosciuto direttamente.
E spesso ritorna il paragone tra Slobo, l’uomo che trascinò la Jugoslavia, ormai ridotta a Serbia e Montenegro, in una spirale di guerre fratricide e in un decennio di embargo e isolamento, e Vučić, quello che all’estero viene spesso presentato come “il giovane premier europeista”.
Ad accomunarli ci sarebbe, secondo molti, la distruzione delle alternative che entrambi hanno portato avanti, con mezzi diversi come diverso era il contesto.
Inoltre, il loro radicamento in un contesto rurale si rispecchia oggi come allora in una frattura tra città e provincia che, reale o meno, si rispecchia nel discorso pubblico.
Oltre al monopolio del potere, infatti, di Vučić si sottolinea la tendenza verso l’autoritarismo, ben rappresentata dal passaggio dalla carica di premier a quella di presidente, un’alternanza tra le massime cariche dello stato che ha caratterizzato Turchia e Russia, due paesi spesso identificati con la nuova spinta illiberale.
Infatti, dopo aver indetto elezioni anticipate nel 2016 per rafforzare la sua posizione, Vučić si è candidato alla poltrona presidenziale. È ancora ignoto il nome del suo successore a capo del governo, ma appare certo che, attraverso un suo candidato, Vučić manterrà il controllo delle due maggiori cariche dello stato.
D’altronde, la necessità di una guida unitaria era già stata espressa nel primo video che ha aperto la campagna elettorale per le presidenziali.
Il breve filmato, ambientato durante un volo di linea, inizia con l’aereo che rischia di schiantarsi perché i due piloti litigano sulla direzione da prendersi. Alla fine si scopre che si tratta solo di un incubo di Vučić, che si era appisolato a bordo dell’aereo e che conclude affermando che in caso le due alte cariche dello stato vadano in direzione diverse “non sarà possibile mantenere la stabilità che oggi abbiamo”.
Vučić però non è né Erdogan né Putin e se la deriva autoritaria che molti temono si dovesse concretizzare, questa si esplicherebbe attraverso un modello nuovo, un autoritarismo dolce, senza strappi, per un ennesimo caso di democrazia illiberale.
Rispettare i principi base della democrazia e tenere elezioni trasparenti, in un sistema in cui lo stato di diritto, l’indipendenza dei poteri, la libertà di stampa sono deteriorati.
Non mettere in carcere i giornalisti, ma togliere spazi pubblicitari e finanziamenti ai media di opposizione per allineare lo spettro mediatico dietro il capo.
Non maltrattare i profughi alle frontiere, ma abbandonarli a sé stessi, senza che le autorità prendano alcun provvedimento. Schierarsi a favore del dialogo nella regione, ma contribuire a una situazione di tensione perpetua.
Vučić, che si esprime a favore dell’entrata della Serbia nell’Unione Europea senza recidere i legami con la Russia, è particolarmente apprezzato a Bruxelles, che lo considera un interlocutore serio e affidabile.
Poco importa che all’interno mostri il suo lato autoritario perché l’Unione Europea, in questo momento, è particolarmente spaventata dai rischi della democrazia e particolarmente incline a quello che Florian Bieber, direttore del Centro per gli studi sul Sud-Est Europa dell’Università di Graz, ha definito “stabilocrazia”.
Niente scosse, no ai sussulti democratici. Anche perché la Serbia è un ottimo terreno per gli investimenti, che vi trovano un clima economico vantaggioso e diritti dei lavoratori praticamente azzerati.
È forse per questo motivo che la grande stampa italiana ha salutato la vittoria di Vučić con un sospiro di sollievo, paventando, in caso contrario, rischi per la stabilità di una regione che siamo abituati a sentire definire “polveriera d’Europa”, pronta ad esplodere come nel 1914.
Eppure non sarebbe stato difficile andare a grattare sotto la superficie per scoprire che il sistema di potere del Partito progressista si è fatto strada grazie alla corruzione e al clientelismo e che nella provincia serba è difficile trovare lavoro senza la tessera del partito in tasca, molto più di quanto lo fosse ai tempi della Lega dei comunisti.
Alcuni mesi or sono agli onori della cronaca era salito il caso di un insegnante di judo di Vršac che avrebbe invitato i genitori dei ragazzi iscritti al suo corso a votare per il partito progressista, adducendo che in caso contrario la società sportiva non avrebbe più ricevuto fondi.
Sarebbe bastato ricordare le vicende di Sava Mala, quando nel pieno centro della capitale serba, nella notte pre-elettorale, un commando di uomini con passamontagna distrussero una serie di costruzioni sul sito su cui sorgerà il progetto megalomane Belgrado sull’acqua, maltrattando e immobilizzando i testimoni (uno dei quali sarebbe successivamente deceduto), senza che la polizia reagisse alle chiamate dei cittadini.
Oppure sarebbe stato abbastanza seguire la campagna elettorale per capire che oltre ai toni, anche i metodi sono stati sopra le righe, con la diffusione di falsi comunicati firmati a nome dell’opposizione e una campagna aggressiva porta a porta degi attivisti del Partito progressista.
Lo stereotipo del politico balcanico, megalomane e misero allo stesso tempo, orgogliosamente legato al potere ed apertamente corrotto, generoso in promesse clientelistiche e arrogante, appare nell’immaginario di molti coincidere con quello dei rappresentanti del Partito progressista.
In questa tornata elettorale questa parodia è stata incarnata dal personaggio di Beli, al secolo Ljubiša Preletacević. Il comico, che da ormai un anno indossa i panni (e gli abiti bianchi) di un politico corrotto dalla provincia, si è aggiudicato il terzo posto con il 9,44% dei voti.
Tuttavia, se questo personaggio ha portato una ventata di freschezza nella campagna elettorale, ha, secondo alcuni, impedito che i voti anti-sistema si aggregassero in un’alternativa credibile.
Davanti alla Serbia rimane un processo di maturazione democratica ancora incompiuto, del quale Vučić è l’emblema e il momento attuale quello di maggiore fragilità delle istituzioni democratiche dalla caduta di Milošević nel 2000.
Agli elettori serbi da dimostrare che è possibile risalire la china, attraverso la partecipazione e una lotta continua per una politica migliore. Come ricorda lo slogan di Beli, samo jako!, avanti tutta!