L’italiano, romanzo vincitore nel 2015 dell’International Prize for Arabic Fiction, racconta la storia di Abdel Nasser e Zeina, militanti di sinistra nella Tunisia degli anni 80, prima dell’ascesa di Ben Ali.
Di Clara Capelli
Il suo nome è Abdel Nasser, ma tutti nel quartiere della medina di Beb Jdid lo conoscono come l’Italiano, perché è bello come un personaggio di Rai Uno, uno dei pochi canali accessibili agli spettatori tunisini tra gli anni Ottanta e Novanta.
L’Italiano è il protagonista dell’omonimo romanzo di Shukri al-Makhbout, rettore dell’Università Manouba di Tunisi, vincitore nel 2015 dell’International Prize for Arabic Fiction e recentemente uscito in traduzione italiana a cura di Barbara Teresi per e/o. Si tratta di una pubblicazione che contribuisce finalmente a colmare il vuoto di conoscenza rispetto alla Tunisia, sostanzialmente scoperta dall’opinione pubblica solo dopo il 2011 con la cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini” (espressione a dir poco riduttiva e infelice) e con gli attentati terroristici del 2015.
L’Italiano ha soprattutto il grande merito di raccontare un capitolo della storia tunisina non molto noto: gli anni Ottanta e il “colpo di stato medico” che portò alla destituzione del Presidente Bourguiba a favore di Ben Ali.
Abdel Nasser, nome dai forti echi storici, è un brillante studente di legge nonché carismatico leader della sinistra studentesca. E la sinistra, in quegli anni, è profondamente in crisi, stretta tra l’ascesa degli islamisti e la repressione del governo.
Lo descrive bene il film Les Sabots en Or di Nouri Bouzid (regista citato nel libro), uscito proprio nel 1989, storia di un militante di sinistra che fatica a reinserirsi nel mondo dopo anni di prigione e tortura; lo si può comprendere altrettanto chiaramente seguendo le udienze pubbliche dell’Instance de Vérité et Dignité, la commissione incaricata della documentazione e delle riparazioni delle vittime della dittatura in Tunisia tra il 1955 e il 2013.
La storia dell’Italiano è quella del tramonto di un sogno personale negli anni del tramonto di un sogno collettivo.
La compagna di lotta e caduta di Abdel Nasser è la filosofa Zeina, la sua “principessa berbera”, come la chiama lui con probabile riferimento alla Kahina, regina guerriera che si oppose alle prime invasioni islamiche nel VII secolo. Sia Abdel Nasser sia Zeina sembrano quasi personaggi mitologici per la loro straordinaria bellezza fisica, i molteplici talenti che li contraddistinguono e l’ardore della militanza politica. Tuttavia, la fine del loro amore e i loro percorsi professionali nulla hanno di epico né tragico, travolti da miserie personali e da una società impietosa, un mondo che volevano cambiare e che finirà per cambiarli, in peggio.
L’Italiano può essere presentato come il romanzo di un amore di gioventù che non sopravvive al narcisismo e alle ambizioni dei suoi protagonisti. Ma non è nella descrizione della parabola sentimentale dei due militanti che stanno i principali meriti dell’opera. Makhbout indulge troppo spesso nel cliché dell’intellettuale fascinoso cui tutte le donne che incontra si offrono sfogando i loro appetiti sessuali, un topos piuttosto ricorrente sia nella letteratura sia nella cinematografia della Tunisia.
I personaggi femminili esistono in funzione dell’Italiano e a sottrarsi a questa dinamica sono forse soltanto le madri di Abdel Nasser e Zeina: la matriarca Zeinab – altra tematica frequente in Tunisia, quella della madre dominatrice – e una donna delle campagne, serva presso una famiglia e schiava di un marito e un figlio nullafacenti, una vita di fatica ed emarginazione tale che di lei non viene nemmeno detto il nome.
La vera bellezza dell’Italiano sta nello scenario storico-politico che fa da palcoscenico alle vicende di Abdel Nasser e Zeina.
C’è la Tunisia urbana sospesa tra tradizione e modernità, rappresentata dalla famiglia di Abdel Nasser, espressione di quell’élite che ancora oggi si dichiara discendente degli ottomani e degli andalusi, rivendicando una mescolanza che serve a prendere le distanze da les arabes. C’è l’arretratezza delle regioni dell’interno (da cui proviene Zeina), epicentro delle rivolte del 2010-2011, in fondo mai veramente toccate dallo sviluppo ma immancabilmente oggetto del disprezzo delle zone costiere.
C’è l’ascesa di Ben Ali, cui seguono l’impoverimento del Paese e la formazione di un sottoproletariato violento e criminale, l’affermazione di un ceto amministrativo e intellettuale senza alcuna qualità se non la connessione con un sistema corrotto e predatorio, i festini animati da “artiste ed estetiste”. C’è la critica alla presidenza Bourguiba – un tema a dir poco delicato in Tunisia -, dalla hubris del Supremo Combattente con le sue politiche, fino al ruolo dello Stato nella repressione e nella censura e nei controversi rapporti con le forze islamiste.
C’è il mito dell’altrove, l’unico luogo dove i sogni, se non sono troppo grandi, possono dispiegare le loro ali, come avviene per il fratello dell’Italiano, Salah ed-Din, brillante economista e sostenitore del libero mercato stabilitosi in Svizzera. E c’è infine Tunisi con i suoi bar e le sue serate di fumo e alcol, quasi pervasa da una sorta di maledizione che deturpa la sua bellezza passata e impedisce che una nuova bellezza nasca.
Da lì sono ripartite le manifestazioni della “rivoluzione della dignità” (espressione assai più appropriata), ma questa è un’altra storia e, come si suole dire, la si dovrà raccontare (bene) un’altra volta.