di Cora Ranci
Tre anni fa, l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi ha espresso la volontà di contribuire a fare chiarezza su alcune “gravissime vicende” del passato italiano su cui continuano a pesare forti opacità. Questi tragici fatti di cui Renzi si è voluto occupare vengono di solito chiamati stragi: piazza Fontana a Milano (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza della Loggia a Brescia (1974), dell’Italicus (1974), Ustica (1980), stazione di Bologna (1980), Rapido 904 (1984).
Una categoria magmatica, quella delle stragi, dentro cui confluiscono eventi in realtà molto diversi tra loro, avvenuti in luoghi ed epoche anche molto distanti. Eppure, per quanto banalizzante, questa categoria ha la sua ragione di essere, perché su un punto continua a valere un’amara constatazione: si tratta di eventi terribili su cui lo stato italiano ha rinunciato a fare giustizia, negando così la possibilità di conoscere fino in fondo la verità.
Sono stragi, sì, ma in particolare sono stragi di stato: l’uccisione violenta di molte persone innocenti insieme da una parte, i tentativi di apparati dello stato di deviare e ostacolare le indagini dall’altra. Sullo sfondo: il comportamento reticente dei governi.
Renzi, dunque, con un’operazione, come si dice, di public history (o, più precisamente, di truthwashing, se mi si concede il neologismo) ha scomodato queste tristissime e irrisolte pagine della nostra storia recente, ordinando di “aprire gli archivi”, come ha riassunto la stampa lo scopo della direttiva del 22 aprile 2014 che dispone la declassificazione e il versamento anticipato all’Archivio Centrale dello Stato della documentazione prodotta da tutte le amministrazioni dello stato sui fatti di cui sopra.
All’epoca della sua emanazione, la direttiva ha suscitato forti perplessità ma anche speranze. Le associazioni parenti delle vittime hanno valutato positivamente la volontà politica espressa da Renzi. Senza un forte e determinato impegno governativo è infatti molto difficile, se non impossibile, che si registrino significativi avanzamenti sul piano della conoscenza delle verità mancanti. Si era tuttavia consapevoli delle difficoltà di passare dalle parole ai fatti, specie su questioni che rischiano di slittare molto in fretta in fondo all’agenda delle priorità governative. I primi malumori si sono registrati infatti già a un anno dall’emanazione della direttiva. Ne avevamo scritto qui e qui.
I parenti delle vittime sono soggetti davvero scomodi. Non sono disposti, lo mostrano la storia e la cronaca, ad accontentarsi di mezze verità, di slogan cui non seguano fatti concreti. Continuano, ciascuno col suo stile e i suoi legittimi obiettivi, a bussare alla porta delle istituzioni, ricordando a tutti i governi che transitano dalle stanze del potere che loro stanno ancora aspettando ciò che gli è dovuto: verità, e giustizia, sulla morte dei loro cari. Con la loro stessa esistenza associativa, rappresentano il deliberato tradimento e l’abbandono da parte di uno stato che ha rinunciato a fare giustizia. Nessun segreto di stato è infatti stato posto su queste vicende: nessuno, cioè, si è assunto la responsabilità di ricorrere allo strumento giuridico che permette, per una durata limitata nel tempo, di tutelare la ragione di stato.
Inizia a esserci, tra i parenti delle vittime, una richiesta di Storia. Si è capito, cioè, che la strada per la verità ha più percorsi.
Nonostante le sentenze zoppicanti e la ricorrente mancanza di verità giudiziarie, è ormai chiaro che se allarghiamo lo sguardo, ad esempio, da piazza Fontana all’Italia intera, e dall’Italia all’Europa, e dall’Europa al mondo spaccato in due dalla guerra fredda, nel biennio caldo del 1968-1969, quella strage si inserisce in un contesto storico preciso. Allo stesso modo, se collochiamo l’aereo di Ustica sulla pericolosa rotta delle ambigue relazioni Italia-Libia nel 1980, anno di ritorno della guerra fredda, in un Mediterraneo attraversato da forti tensioni, capiamo come la strage del DC-9 Itavia sia il colpevole esito di una politica estera e di difesa rischiosa e incoerente. A differenza del giudice, lo storico non punisce né assolve, ma interpreta, cerca di spiegare. E la comprensione è un passaggio indispensabile nel processo di rielaborazione delle memorie traumatiche.
“Aprire gli archivi”, come è stato detto, poter vedere le carte, è allora molto importante per studiare i nessi che legano queste tragiche vicende ai contesti storici e politici che le hanno permesse. Nei documenti che Renzi ha promesso di rendere accessibili, nessuno si aspettava di trovare la “pistola fumante”. Ci si augurava, però, di poter disporre di nuova documentazione, oltre a quella giudiziaria, attraverso cui studiare il comportamento delle amministrazioni dello stato all’epoca dei fatti cui ci si riferisce. Per poter così continuare a comporre il mosaico della Storia, aggiungendo preziosi tasselli di conoscenza, di verità.
“In un paese normale”, l’accesso ai documenti dovrebbe essere garantito da un meccanismo automatico e virtuoso di trasparenza, e non grazie a provvedimenti spot che presuppongono una selezione arbitraria dei fatti su cui si legifera. Sarebbe sbagliato, però, ignorare quanto la domanda di verità sulle stragi sia ancora forte e viva nell’opinione pubblica italiana. Se la Storia ha, come chi scrive pensa dovrebbe avere, una vocazione di impegno civile, allora è giusto che si risponda alla domanda di verità storica che viene dalla società. Lo stato ha allora il dovere di organizzare la documentazione e di renderla accessibile secondo le norme in vigore.
La direttiva perciò è giusta, anche se profondamente problematica nell’attuazione. Le preoccupazioni che avevamo espresso qui, tre anni fa, possono oggi dirsi confermate. Come si temeva, la documentazione è arrivata in maniera disordinata. In assenza di criteri di declassificazione prestabiliti, ogni amministrazione ha fatto ciò che ha potuto, sulla base delle proprie risorse, molto spesso carenti. Di fatto, i documenti sono stati estrapolati dai loro archivi originari e consegnati all’Archivio Centrale dello Stato. Non abbiamo alcuna garanzia che i versamenti rispecchino l’intero patrimonio documentale, come la direttiva vorrebbe. Nel caso di Ustica, una delle stragi contemplate, vi sono pochissimi documenti prodotti nel periodo coevo all’evento, cioè nel 1980. La stragrande maggioranza della documentazione è pura burocrazia: si tratta di informazioni, quasi sempre in copia, che le amministrazioni hanno trasmesso all’autorità giudiziaria, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’80.
Un Ministero chiave per la vicenda del DC-9 Itavia, quello dei Trasporti, ha dichiarato di non sapere nemmeno se fosse in possesso o meno di documentazione su Ustica, e solo dopo due anni di richieste e di sforzi ha infine consegnato alcuni faldoni.
Per ovviare ai problemi assai complessi contro cui si è scontrata l’attuazione della direttiva, su richiesta delle associazioni delle vittime e da un gruppo di archivisti e storici sensibili al tema è stata creata una commissione, attraverso cui i soggetti coinvolti possono confrontarsi col governo, segnalare le criticità e individuare soluzioni. È evidente che la direttiva si scontra con un problema molto più ampio, che riguarda tutto il patrimonio documentale nazionale e in generale la drammatica situazione in cui versano gli archivi storici in Italia – per un resoconto, si veda qui.
Tre anni dopo, possiamo dirlo con franchezza, la direttiva si è rivelata assolutamente velleitaria rispetto a un’operazione difficile, e il fatto che il governo Gentiloni non abbia delegato nessuna personalità politica rilevante a seguirne l’attuazione – prima era incaricato l’ex Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ora Ministro per la Coesione Territoriale, Claudio De Vincenti – ha lasciato deluse le aspettative delle associazioni parenti delle vittime.