Comprendere i disastri: abitare, ricostruire, ricercare nel post-sisma emiliano
di Silvia Pitzalis
Introduzione
Sono le 16 di un pomeriggio di maggio 2013, il cielo è terso, l’aria è fresca. Tra pochi giorni sarà il primo anniversario del terremoto. Sono seduta sul marciapiede di una delle vie adiacenti al centro di Concordia sul Secchia (Modena), un piccolo centro urbano di circa 4000 anime devastato dallo sciame sismico che il 20 e il 29 maggio 2012 ha colpito la Bassa (porzione nord della Pianura Padano-emiliana). Mi avvicino alla recinzione che vieta l’ingresso al centro storico, decretato zona rossa.
Mi affaccio incuriosita dalle transenne, governata da sentimenti discordanti che si susseguono tra la paura di crolli improvvisi e il desiderio di esperire quell’altrove. Guardo attonita le macerie, scorgo pezzi di storia, umanità in polvere. Seguo con lo sguardo il perimetro di rete rossa che disegna percorsi di interdizione e divieti, un filo rosso che segna il confine tra il qui e ciò che rimane di quel fu, ormai fuori dal tempo. Assorta nei miei pensieri non mi accorgo dell’avvicinarsi alle mie spalle di un anziano, ricurvo nella sua persona per le fatiche di una vita. Con lo sguardo indagatore mi sorride e mi ammonisce: «Signorina cosa fa? Qui non si può entrare, è zona rossa!».
Rimango colpita da quanto una frase così tecnica possa per consuetudine entrare a far parte dell’suo comune, quasi gergale. Interrogo a mia volta il mio interlocutore: «Cosa è successo qui?». E lui prontamente, quasi in maniera canzonatoria, asserisce: «Signorina, ma non lo sa? Qui col terremoto è venuto giù tutto. Il terremoto ci ha portato via tutto, le case, la vita e chissà cos’altro ancora. Quelli del Comune, insieme a quei tecnici e professoroni, hanno chiuso tutto col recinto, lo vede? Hanno detto che non si può entrare perché può crollare tutto da un momento all’altro».
Rivolgo il mio sguardo ancora una volta alle macerie, quell’insieme informe di materia e sentimento. Il signore mi indica la piazza centrale di fronte al Municipio: «Quella era la piazza, la vede laggiù? Prima tutti i giorni, verso quest’ora, mi sedevo lì e chiacchieravo con altri del paese di qualsiasi cosa. Era anche bella! Ora non posso più, vede che macello? Ora me ne vado in giro per il Paese, a passeggio, così, senza un posto dove stare veramente, a risposarmi. Non parlo con nessuno, guardo questo scempio. E mi fa male al cuore».
Narrare. Percepisco la necessità di narrare il disagio, l’urgenza di renderlo comprensibile, di dargli un senso nel processo di messa in parola.