Delle vite in attesa, delle vite in viaggio, delle scelte senza paracadute
di Alessandra Governa
Quando li vedi sbarcare e poi li vedi passare in fila indiana, a piedi nudi e stretti nelle coperte termiche dorate, come fossero uova di Pasqua riuscite male, pensi al freddo, alla fame, alla sete, alla paura. Anzi forse non pensi, impegnata come sei a distribuire tè caldo, a raccogliere i bicchieri vuoti, a stare attenta alle dinamiche del molo, alle gerarchie, ai personalismi, ai ruoli.
Non pensi, ma senti: hai davanti delle persone vive. Prostrate, ma vive. Senti che hai davanti persone che tra qualche giorno potranno chiamare casa e dire che a Lampedusa ci sono arrivate.
E’ solo dopo – a distanza di settimane, ormai a casa quando leggi di nuovi sbarchi, quando vedi immagini di naufragi, quando ascolti comizi razzisti e ignoranti – che ti si apre una voragine dentro. Quello a cui non avevi pensato e non avevi sentito esplode, lasciando un cratere.
Sono scappato da una prigione per finire in un’altra. M. ha trent’anni anche se per convincermi che sono l’amore della sua vita e che faremo un figlio insieme, dice che ne ha trentacinque la tua età. Viene da Kinshasa. È un ingegnere gestionale.
Da subito l’ho soprannominato il lord per il suo portamento regale e altero. Ha però uno sguardo serio, triste oserei dire. Le sue telefonate sono in lingala, incomprensibili anche se uno dei numeri chiamati è europeo.
Il profilo WhatsApp mostra una bella donna in abiti colorati e una bimba. Gesticola e non sorride, come quando racconti con dovizia di particolari qualcosa di doloroso. Finita la conversazione, ringrazia e se ne va. L’ultima volta che l’ho visto aveva in mano una brochure sulla richiesta di asilo in Italia. Il Congo non è messo bene.
M. fino a qualche giorno fa era accolto in un CAS. Non uno dei migliori, a quanto si dice in giro. Non si capacita di essere di nuovo prigioniero di un sistema che non lo vuole, ma che non lo lascia andare.
Le conversazioni sono quotidiane, via WhatsApp o via mail. Non capisce perché io lavori così tanto. Parla a maglie larghe di sé. Prima di sapere qualcosa di lui passano giorni, passano messaggi, passano rassicurazioni e dichiarazioni d’amore. Se fossi un fiore, riempirei di te il mio giardino è la prima di una lunga serie.
Coinvolto in politica con il partito di opposizione, membro attivo della chiesa locale, impiegato in una Ong per lo sviluppo sociale. Tutto questo azzerato nel momento in cui racimola i soldi – tanti – e prende un aereo per la Tunisia, poi passa in Libia, poi su un barcone verso l’Italia.
Non dura tanto il suo viaggio, poco più di due mesi nei quali non passa l’orrore del deserto. Ma lascia una mamma nascosta in un posto sicuro, la casa alla mercé di chicchessia e un cugino scomparso poco prima della sua partenza.
Non posso tornare in Congo. Ma non posso stare qui.
Quella cosa a cui non ho pensato e che ora a cerchi concentrici si espande è l’attesa. Più della solitudine, forse, uccide l’attesa. Da quando è arrivato non è più M. ma un numero nell’hotspot, un nome sul registro dell’internet point, un richiedente asilo da sistemare nella prima struttura disponibile. E non importa dove sia, se abbia i picchetti di Forza Nuova davanti al cancello o se l’ente gestore a fatica organizzi corsi di lingua.
M. passa le giornate in attesa. Isolato perché il centro è in una valle montana e per raggiungere la città più vicina ci vogliono due mezzi pubblici. È sempre una questione di soldi, spostarsi.
In attesa che inizi il corso, in attesa della data della commissione, in attesa di poter trovare un lavoro.
Un’attesa che non ha una data. Non c’è un domani ti trasferisco. Non c’è un tra un mese iniziamo la preparazione della commissione. Non c’è un tra dieci giorni cerchiamo lavoro. Non c’è stato, da parte mia, oggi sono qui, ti sono venuta a trovare.
M. se n’è andato. Non so esattamente quando, ma prima i messaggi si sono diradati, poi sono scomparsi. È difficile con un wifi a portata di mano sapere dove davvero uno sia.
È impossibile tracciare un ‘sono qui e sto bene’ a centinaia di chilometri di distanza e in una lingua di cui non sei padrona.
Il suo buona Pasqua però arriva, puntuale, da un numero straniero. Riconosco il prefisso e riconosco lui dall’icona WhatsApp – la scritta ne jamais trahir le Congo su uno sfondo azzurro cielo. Si è liberato della prigione a modo suo, è con dei parenti o amici, inutile indagare le sottigliezze delle relazioni africane.
Non posso non snocciolargli tutte le conseguenze del suo gesto: partire senza avvertire, viaggiare senza documenti, perdere l’accoglienza, mettere a repentaglio la procedura per il riconoscimento della protezione internazionale.
Non voglio spaventarlo né pretendere che ragioni come me, ma non posso non pensare ai rastrellamenti e alle deportazioni al confine di Ventimiglia, alla poca grazia della polizia e alla facilità con cui rispedisce al mittente, spesso senza verificare, i migranti irregolari sul territorio. E sullo sfondo, l’incubo Le Pen e i politicanti come lei.
Mi consulto, faccio ricerche, chiedo, spremo quel poco di francese che mi rimane dalle ore passate sui libri (per inciso, se non so il francese è perché proprio non mi piace). Non so se lo faccio più per me – per tacitare quel oggi sono qui che non c’è mai stato – o per lui. Sento la sua rabbia (a voi la mia domanda di asilo non serve, perché non la lasciate al paese dove sono ora?) e sento la sua frustrazione per le opzioni nulle che ha sul piatto. Da una parte un centro che ha già chiuso le porte, dall’altra una permanenza da clandestino nel luogo in cui ha scelto di stare. Ora è invisibile.
Cosa ne faccio della mia vita mentre aspetto le vostre leggi?
Io non so rispondere. Io non posso rispondere che andrà tutto bene, perché questa Europa non me lo permette più, non solo di dirlo, ma nemmeno di pensarlo. E allora faccio domande, io che sono la sua bien aimée, che ringrazia per le attenzioni e le dovizie di particolari su leggi e procedure, ma di cui probabilmente non seguirà alcun consiglio.
La logica di M. è nuova per me, e dove non può la logica, possono la speranza e la fede. Gli chiedo se dov’è ora sia meglio dell’Italia. De vue, peut etre.