Viaggio nella capitale serba, dove la società civile lotta contro la corruzione e il soffocamento della libertà di stampa
di Valentina D’Amico, da Belgrado
Belgrado la riconosci la sera, nel bene e nel male. Bombardata durante la prima e seconda guerra mondiale e infine nel 1999 durante la guerra del Kosovo, la città balcanica è stata ricostruita a più riprese e di giorno risulta anonima, a tratti davvero brutta agli occhi distratti dal traffico che scorre disordinato nel grigiore di palazzi scialbi ma austeri, memori dell’architettura jugoslava. Così sembrano.
Al calar del sole, i punti luce accuratamente orientati educano lo sguardo restituendo un fascino per troppe volte maltrattato. Il palazzo del Parlamento si staglia dorato e più che mai maestoso nel nero del cielo, quasi a rivendicare un ruolo di rappresentanza messa sotto accusa, di giorno, dalle migliaia di cittadini che dal 3 Aprile scorso, dopo la vittoria del primo ministro Aleksandar Vučić alle elezioni presidenziali protestano per le strade della capitale. E a Novi Sad nel nord della Serbia, a Nis nel sud. Ancora, in centinaia, in altre città minori: Subotica, Sombor, Kraljevo, Kruševac, Zrenjanin, Leskovac, Požarevac, Bor.
Sono studenti, lavoratori, pensionati. Accusano il partito progressista serbo di Vucic, eletto presidente con oltre il 55% dei voti, di frode elettorale, intimidazione degli elettori e bavaglio ai media.
Non accettano i tentativi dei partiti di opposizione di cavalcare le proteste perché il movimento nasce spontaneo, da un appello su Facebook (“Protest Against Dictatorship” la pagina di riferimento) e il dissenso è verso l’intero sistema politico che descrivono come corrotto pretendendo un cambiamento radicale della realtà socioeconomica e leggi di riforma del mondo del lavoro.
Pavel Garzičić, uno degli animatori del movimento tiene a precisare “non ci sono leader fra noi. Do solo una mano ad organizzare le proteste. Il nostro obiettivo è cambiare il sistema, perché l’intero sistema è corrotto. Alcuni partiti di opposizione hanno cercato di avvicinare i manifestanti ma la stragrande maggioranza diffida dei politici.
Molti tra coloro che scendono in piazza hanno votato per Saša Janković, ex Difensore civico della Repubblica, altri per “Beli” (Luka Maksimović, comico e attivista politico serbo, candidato alle presidenziali, ndr), e Vuk Jeremić, (ex ministro degli esteri con Kostunica, ndr), e secondo il mio parere personale dovremmo individuare un’alternativa, non può essere sufficiente chiedere la fine della dittatura di Vučić senza un piano preciso.
Pochi mesi fa ho terminato il percorso universitario a Pechino, ho 24 anni, sono disoccupato, sono nato in Serbia, amo questo paese e sono tornato per cercare di costruirmi un futuro. Circa 60mila giovani istruiti ogni anno sono costretti ad emigrare all’estero per trovare lavoro. Un numero enorme. Se si continua così in pochi anni qui rimarranno solo i vecchi”.
Anja, 23 anni, seduta sul muretto dell’Università di Belgrado, attende l’inizio delle lezioni. “La Serbia è un paese corrotto – afferma – a tutti i livelli. Non si può aspirare ad un lavoro nella pubblica amministrazione, in nessuno dei settori della pubblica amministrazione a meno che non si abbiano agganci con i partiti al potere.
In Europa è considerato un leader democratico? Non è vero. L’unico modo per lavorare onestamente qui e poter essere fieri di aver realizzo qualcosa da soli è metter su un’attività privata, che sia piccola però”.
“La percezione della corruzione è dovuta a tanti fattori, spesso soggettivi – afferma seduto al centro di un tavolo rettangolare, alle spalle la scritta a caratteri cubitali “Ministero della giustizia” – Čedomir Backović, assistente del ministro. “Se si dice il livello di corruzione è alto, la domanda è, alto comparato a cosa, a chi? Se si fa un confronto con gli altri paesi della regione balcanica non è affatto alto. Basta verificare le statistiche”.
Secondo l’ultimo rapporto sull’indice di percezione della corruzione redatto da Trasparency International, riferito al 2016, la Serbia è in effetti il paese balcanico con il miglior punteggio, meglio anche della Bulgaria, già paese UE, ma “è ancora considerata un paese in cui il livello di corruzione è elevato, al 72° posto in una lista di 176 paesi… e in sostanza non si registrano cambiamenti significativi dal 2008”.
Soprattutto è interessante l’analisi che Transparency International fa dei dati, “non è realistico aspettarsi che l’immagine che altri hanno di noi cambierà se non risolveremo i problemi che ogni anno vengono segnalati dagli organi pubblici nazionali, da organi di stato indipendenti e dalla commissione europea e se i casi di sospetta corruzione denunciati non vengono perseguiti”.
“Non bastano le grandi retate in occasione delle campagne elettorali” afferma diretto Saša Đorđević del Belgrade centre for security policy, Bcsp, organizzazione indipendente fondata nel 1997 per promuovere la cultura della sicurezza.
“Il partito di governo ha vinto le elezioni già nel 2012 perché uno dei messaggi in quel momento era, combatteremo la corruzione, e per essere più credibili promisero di far luce sulle 24 privatizzazioni segnalate dal Consiglio anticorruzione, organo consultivo del governo. Uno dei tanti organismi indipendenti istituiti in Serbia dopo la svolta democratica post Milosevic.
Cinque anni dopo non abbiamo alcun verdetto né tanto meno un inizio di procedimento in relazione a quelle privatizzazioni. La farsa si è ripetuta l’anno scorso, ancora in occasione delle elezioni parlamentari, quando ben due azioni di polizia portarono all’arresto di circa 80-90 persone. Le televisioni trasmettevano immagini che sembravano tratte dal cinema tanto erano ampollose: poliziotti, uniformi, pistole. Di nuovo, dopo un anno, nessun tipo di perseguimento, nessun verdetto.
Persino ieri (24 aprile, ndr) sono stati arrestati 16 ufficiali doganali per presunta corruzione. Arrestano tutti i giorni e i numeri sono sempre grandi. Nessuno mai risponde, tanto meno gli alti ufficiali del governo”.
Il riferimento è a Goran Knežević, ministro dell’economia in carica, arrestato nel 2008 quando era un importante esponente Partito democratico allora al governo e sindaco di Zrenjanin una città nella provincia di Vojvodina. Sospettato di riciclare soldi pubblici a vantaggio di organizzazioni criminali che lo reinvestivano in operazioni immobiliari, ha trascorso quasi un anno in carcere.
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Nel 2012, quando i progressisti di Vucic hanno vinto le elezioni, Knežević fu nominato ministro dell’agricoltura. Il procedimento legale a suo carico non è mai nemmeno iniziato e non ha mai dato spiegazione dei 100 mila euro in contanti trovati nel suo ufficio al momento dell’arresto.
“Per il popolo serbo, polizia e magistratura sono tra le istituzioni più corrotte” afferma Đorđević rivelando i dati di un’indagine condotta, anche questa, nel 2016.
Un anno buio per la polizia della capitale accusata di non aver saputo o potuto rispondere a una richiesta di aiuto da parte di cittadini residenti nel distretto di Savamala durante la fatidica notte delle demolizioni quando un gruppo di uomini mascherati, alla guida di bulldozer, demolì alcuni edifici sulla riva del fiume Sava, mentre un altro gruppo correva nell’area adiacente in cerca di testimoni che, allineati con braccia e gambe allargate, furono minacciati di tacere, pena ritorsioni.
Si ritiene che quegli edifici piuttosto fatiscenti e abitati da gente povera siano stati abbattuti per far posto al “Belgrade Waterfront”, un grande progetto di riurbanizzazione che vede coinvolto da un lato il governo serbo e dall’altro la Eagle Hills, società con base ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi. Fondata nel 2014, la Eagle Hills vanta diversi progetti ambiziosi in Nigeria, Bahrein, Giordania e Marocco.
Il mega progetto con la Serbia, per un investimento totale di 3,5 miliardi di euro, prevede seimila nuove unità residenziali, ventiquattro mila uffici, otto hotel, una galleria destinata allo shopping con punti vendita e di intrattenimento e svago, centri culturali e artistici. Punta di diamante un grattacielo di vetro, Kula Belgrade, che ospiterà un hotel di lusso da 125 stanze e suite, ristorante panoramico, piscina, palestra, una spa, spazi e per eventi e meeting. Con i suoi 40 piani per oltre 160 metri di altezza sarà il più alto edificio residenziale mai costruito in Serbia.
L’indagine interna condotta da Saša Janković, allora difensore civico della Repubblica serba, dimessosi all’inizio di quest’anno per correre alle presidenziali di aprile ottenendo il 16% dei voti, ha chiarito che la polizia rifiutò di intervenire a difesa dei cittadini.
Janković ha accusato inoltre il ministro dell’interni Nebojša Stefanović, ancora in carica, di complicità. Le autorità serbe si limitano a sostenere di non conoscere l’identità degli uomini mascherati e lo stesso primo ministro, ora anche presidente della repubblica, Aleksandar Vučić, ha più volte dichiarato che la sua unica obiezione è che il lavoro sia stato eseguito durante la notte, ma “quelle capanne illegali” andavano demolite.
Secondo quanto affermato dallo stesso Vučić i responsabili sarebbero da ricercare nell’amministrazione della città, ma lui, ha detto, interverrà soltanto dopo il pronunciamento della magistratura di cui ha piena fiducia. Rodoljub Šabić, commissario serbo per le informazioni di interesse pubblico, ha accusato i pubblici ministeri incaricati dell’inchiesta di inattività e lavoro poco trasparente. A loro volta i pm hanno riferito all’Insajder, team indipendente di giornalismo investigativo, che la polizia non lavora secondo le richieste della procura.
Milos Đorđević, da 29 anni professore di educazione fisica, che quella sera si trovava nel distretto di Savamala per suonare in un club insieme al suo gruppo, ha riferito a Birn, rete di organizzazioni non governative con sede nei Balcani che promuove la libertà di espressione, i diritti umani e i valori democratici: “Fui trascinato fuori dall’abitacolo e minacciato da uomini mascherati che mi intimarono di consegnare i documenti e il telefono, di abbassare la testa e non fare domande.
Credevo di essere in un film, mai avrei creduto che una cosa del genere potesse accadere nella realtà, nel ventunesimo secolo. È scioccante essere privato della libertà, non sapere cosa sta succedendo e temere che mai i responsabili saranno individuati e puniti”.
Tutto accadeva, nella notte tra il 24 e il 25 aprile 2016, pochi minuti dopo la chiusura dei seggi per le elezioni anticipate del parlamento che consegnarono la maggioranza assoluta alla coalizione del Patito progressista e confermarono Aleksandar Vučić primo ministro serbo.
Il 25 aprile scorso, primo anniversario di quella notte, circa quattromila persone si sonno riversate per le strade di Belgrado richiamati dalla rete “We won’t let Belgrade d(r)own”, non lasciamo che Belgrado anneghi (“Ne da(vi)mo Beograd”, in serbo).
Ne fanno parte associazioni, organizzazioni indipendenti, avvocati, accademici, giornalisti, architetti e urbanisti. Una folla colorata, eterogenea, di giovani, studenti, lavoratori e anziani, insieme per urlare “via la dittatura”.
Sugli striscioni la scritta “duck you”, letteralmente , in inglese,“anatra sei tu”. L’anatra è il simbolo delle proteste del movimento. In serbo, come d’altronde anche in inglese, la parola è sinonimo di “cazzone” detto in termini volgari, persona malfida, insomma, ipocrita.
“Inviamo un messaggio ad Aleksandar Vučić” ha urlato alla folla Jovo Bakić, assistente presso la Facoltà di filosofia di Belgrado, “non accetteremo un falso sultano”.
“Belgrade Waterfront rappresenta uno dei più grandi esempi di corruzione in Serbia” ha denunciato Robert Kozma, membro del movimento, politologo, impiegato presso “Group 484” con attività nel campo dell’immigrazione, per la costruzione di una società plurale.
“È l’esempio lampante di come sia possibile in Serbia trasferire con metodi illegali proprietà pubbliche, le terre lungo il fiume Sava, nelle mani dei privati. Dalla notte delle demolizioni protestiamo periodicamente perché ancora non è stato avviato alcun procedimento. Siamo tutti concordi sul fatto che quell’area andava e va riqualificata, ma non sulla pelle di cittadini inermi buttati fuori dalle proprie case in piena notte.
Un’enorme quantità di soldi della città, di soldi dei cittadini finirà in tasca a magnati privati che investono in appartamenti di lusso. Questo paese ha bisogno di un sistema politico democratico in cui siano salvaguardati lo stato di diritto e l’uguaglianza sociale. Uno dei capisaldi della politica di Vucic è l’ingresso nella Unione Europea che è stato un gran bel progetto mirante ad unire popoli di differenti nazioni.
Ma se l’Unione europea oggi punta tutti i suoi sforzi sulla liberalizzazione dei singoli mercati in cui i diritti umani e la protezione dei diritti dei lavoratori non siano inclusi, allora penso che abbia un grosso problema insito. Quello che vogliamo è la costruzione di un sistema politico democratico, un sistema basato sullo stato di diritto e l’uguaglianza sociale. Quello prospettato da Vučić invece è un tipo di capitalismo conservatore e autocratico. Non siamo interessati ad alcun accordo con lui ovviamente né con i partiti di opposizione perché la partita per noi è sui valori democratici di uguaglianza sociale”.
Arrivati davanti alla sede del governo i manifestanti hanno lanciato della carta igienica contro la facciata. Alla manifestazione erano presenti diversi sindacati di lavoratori e persino il maggior sindacato di polizia serbo.
Jasmina, che indossa la divisa da 32 anni, non risponde direttamente alla domanda sul comportamento tenuto dalla polizia nella notte delle demolizioni, ma dice “in Serbia viviamo un periodo molto difficile, tutto il potere è nelle mani di un solo uomo, la giustizia non funziona, vale solo per pochi eletti” e poi lamenta le difficoltà di un sistema economico che “corre in direzione opposta ai diritti dei lavoratori.
Lo stipendio medio in Serbia è di 200€ – dice – dopo anni di lavoro io guadagno appena circa 280 euro”.
A fine serata, un tassista interpellato sul perché delle proteste e cosa ne pensasse, ha risposto “si, ci cono strade interdette al traffico, credo per manifestazioni. Ma non ne conosco il motivo”.
Il giorno dopo pochi media ne riportano la notizia, qualche trafiletto sulla stampa, spesso denigratorio e riportante un numero di partecipazione inferiore a quello dichiarato dai manifestanti e dai media indipendenti, lo stesso per le televisioni. L’unica emittente che ha seguito la manifestazione, così come tutte le proteste degli ultimi mesi in Serbia, è N1, canale di notizie h24 con sedi anche in Bosnia-Erzegovina e Croazia, affiliato alla Cnn.
Ma il 5 maggio 2017 Balkaninsight dà notizia che il governo serbo starebbe approntando una riforma dell’informazione che di fatto impedirebbe a N1 di continuare ad esistere. La denuncia è del direttore di N1 Serbia, Jugoslav Ćosić, secondo cui il Ministero della cultura e dell’informazione sta elaborando una serie di leggi in base alla quale i distributori di canali televisivi via cavo e le entità a loro correlate non possono essere allo stesso tempo produttori e proprietari dei propri canali.
N1 è di proprietà di Adria Notizia, parte di United Media che è membro del gruppo United, lo stesso di SBB, un fornitore di televisione via cavo e servizi internet a banda larga in Serbia.
Se la riforma passasse renderebbe “impossibile a N1 il proprio lavoro” ha dichiarato Ćosić a Birn, di cui il sito web di notizie indipendente, Balkaninsight è diretta espressione. Nino Brajević, segretario di Stato per l’informazione e i media, ha smentito le accuse affermando che “l’eliminazione dei media non è e non può essere un obiettivo di sviluppo per la Serbia”.
Ilir Gashi, direttore della fondazione Slavko Ćuruvija, dal nome dello scomodo giornalista serbo assassinato nel 1999 a Belgrado con la probabile complicità del Sdb, il servizio di sicurezza dello Stato, è lapidario: “La differenza rispetto al periodo Milosevic sta nel fatto che oggi i giornalisti non vengono più ammazzati.
Per il resto la pressione subita dai media oggi è altrettanto dura ed efficace. Basti alla qualità dei servizi e al modo in cui la stragrande maggioranza dei media coprono le campagne elettorali. Il 90% ha presentato Vucic come il candidato favorevole o, nei casi di miglior giornalismo, in maniera neutra. Gli altri candidati sono stati presentati in termini assolutamente negativi e a volte, anche, come nemici dello Stato”.
Zlatko Minić, di Transparency Serbia, organizzazione non governativa rientrante nel network di Transparency International, fornisce i dati precisi: “Nelle quattro settimane di campagna elettorale, Aleksandar Vučić ha potuto contare su 185 apparizioni nelle prime pagine dei quotidiani in Serbia, 141 di tenore positivo, 90 neutrale e 25 negativo.
Tra i principali candidati dell’opposizione, Saša Janković ha avuto 90 apparizioni di cui solo 26 positive, 17 neutrali e 47 di tenore negativo. La situazione è molto simile sui media digitali. Il primo ministro si difende dicendo che il conteggio con ingloba anche i tre milioni di profili facebook e twitter.
Ma i cittadini serbi non usano i social come fonte di informazione primaria, piuttosto i media mainstream e, in particolar modo, la televisione. Pink Television fra tutte, è la più vista del paese, assolutamente filo-governativa. Tra la carta stampata Informer, tabloid filo-governativo, è il giornale più diffuso, con più di 100mila copie vendute ogni giorno”.
“In Serbia si contano 1800 media registrati, un numero enorme” dice Slobodan Georgijev coordinatore di Birn in Serbia. “Sembrerebbe dunque garantita la pluralità. A ben vedere, si tratta per lo più di media mainstream, televisioni e carta stampa, per la maggior parte controllati direttamente o indirettamente dal governo, tramite le agenzie pubblicitarie che decidono su quali media dirottare le inserzioni.
I media indipendenti che fanno capo ad organizzazioni senza scopo di lucro come Krik, Crime and corruption reporting network, o Cins, Serbian Center for Investigative Journalism e Birn traggono le loro uniche fonti di finanziamento da organizzazioni estere, fondazioni europee, statunitensi, svizzere, austriache senza il cui apporto non sarebbe possibile sopravvivere”.
“Ma il governo – aggiunge Saša Đorđević, del Belgrade Centre for security policy – cerca di scoraggiare anche questi finanziamenti disegnandoci come organizzazioni e media contrari all’ingresso della Serbia nell’Unione Europea e nemici dello stato”.
Il quadro è confermato dall’ultimo rapporto di Reporters without borders secondo cui “La libertà dei media è diminuita da quando Aleksandar Vučić, ex ministro dell’informazione di Slobodan Milošević è diventato primo ministro nel maggio 2014”.
“Le forme di pressione sugli elettori non passano solo attraverso la propaganda sui media” spiega Milan Antonijevic, direttore del Comitato degli avvocati per i diritti umani, Yukom, associazione professionale non governativa per la promozione dei diritti umani fondata nel 1997.
Uno dei mezzi di pressione usato in tutte le campagne elettorali, e dal 2014 in Serbia siamo in campagna elettorale permanente (ci sono state elezioni nel 2012, nel 2014, nel 2016 e le ultime nell’aprile scorso, ndr), è quello di bussare porta a porta e chiedere ad ogni elettore di andare a votare per il partito vincente. Soprattutto i dipendenti pubblici hanno subito dure pressioni e in Serbia sono 700mila le persone impiegate in società pubbliche.
Costretti a votare dietro minaccia della perdita del posto di lavoro, è stato chiesto loro di scattare una foto col cellulare a riprova del voto espresso. Diversi politici lo hanno fatto apertamente sulla propria pagina Facebook.
Una forma di pressione usata anche e soprattutto nei confronti degli strati sociali più emarginati a cui sono stati promessi dei soldi in cambio”.
“Sotto Milošević un politico dell’opposizione mi ha detto, potremo vincere solo quando controlleremo ogni singolo voto, prima di allora non ce la faremo mai” ricorda serafico Dragan Janjić, 62 anni, tra i fondatori di Nuns, Società indipendente dei giornalisti di Serbia.
“Oggi la situazione è differente” aggiunge “la gente non ha fiducia alcuna nella politica. Non ci sono più idee, non ci sono più ideologie, bene, pensano, io voto per chi mi promette denaro”. “Stiamo parlando di cifre pari ad anche soli 10€” afferma amareggiato Milan Antonijević che aggiunge “L’integrazione nell’Ue dovrebbe essere basata sullo stato di diritto, sul rispetto dei diritti umani e delle libertà di ognuno”.
Dopo la caduta di Milošević e l’apertura verso un sistema democratico la Serbia punta all’integrazione europea, Vučić ne è diventato il paladino. Anche in risposta alle richieste della Ue sono stati istituiti vari organismi indipendenti come l’Agenzia per la lotta contro la corruzione che però non funziona ancora da deterrente credibile e oggi è bloccata a causa della scadenza dei mandati di sette membri su nove.
Tra le altre cose l’Agenzia stila relazioni sul finanziamento dei partiti politici, controlla le spese dei candidati nelle campagne elettorali. I due membri superstiti, da soli non possono adottare alcuna decisione, per legge occorre il voto favorevole di almeno cinque membri.
Tre dei nove membri sono designati rispettivamente dal Parlamento, dal Governo e dal Presidente della Repubblica. Gli altri sei dalla Suprema corte di cassazione, dall’Ente di revisione statale, dal Difensore civico e il Commissario per le informazioni di rilevanza pubblica, dal Consiglio economico e sociale e, infine, dall’associazione degli avvocati.
Secondo quanto riportato da Insajder, paradigma del giornalismo investigativo in Serbia, “nonostante il fatto che gli organi indipendenti e le associazioni professionali abbiano proposto da anni i loro candidati, il Parlamento non procede alla designazione”.
A distanza di poche settimane dalla elezioni presidenziali, la partecipazione alle proteste sembra calare e il movimento si è diviso in due gruppi. L’insistere nel non volersi dotare di un’organizzazione, nel non voler puntare ad obiettivi concreti non ha giocato a favore.
Un gruppo rimane concentrato sulla protesta contro il governo e continua a gestire la pagina Facebook “contro la dittatura”. L’altro, denominato “Sette richieste” dal numero delle richieste adottate all’inizio delle proteste, da un lato continua a sostenere la lotta contro l’esecutivo in carica, dall’altro ritiene che sia necessario una “rivoluzione” del sistema, interventi mirati sul piano sociale, economico.
Dopo le guerre degli anni ’90, i bombardamenti [della Nato], le aspettative fallite, la privatizzazione, la deindustrializzazione, il crollo dell’istruzione, del benessere e della sanità, abbiamo visto cambiare le élite politiche ma la politica rimane la stessa” hanno chiarito in un comunicato.
Un terzo gruppo si è aggiunto, infine, da indipendente, alla galassia del movimento di opposizione. Si chiama “Cultura contro la dittatura” nato dalla necessità di formulare “richieste più concrete a fronte di quelle attuali irraggiungibili”, così hanno dichiarato gli organizzatori al sito d’informazione Insajder.